lunedì 4 maggio 2009

Le Memorie di Enrichetta Caracciolo: III. La gelosia.

Homepage - Repertori
Precedente - Successivo
Capitoli: I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII - IX - X - XI - XII - XIII - XIV - XV - XVI - XVII - XVIII - XIX - XX - XXI - XXII - XXIII - XXIV - XXV.

III
La gelosia

Alludendo al tradizionale sistema di depravazione con cui gli or decaduti tirannelli della nostra penisola snaturavano i costumi de’ loro sudditi, scrisse il più acuto e più arguto de’ critici tedeschi, mancato non ha guari alle lettere, che il maestro Gioacchino Rossini era il solo uomo di stato dell’Italia.

Heine definì così gl’istinti della stirpe latina colla profondità che non seppe impiegare nell’esame dell’indole germanica. Egli soggiornò in Napoli, e studiò da vicino il predominio tremendo della melomanìa nei Napoletani.

Fu detto pure, che con tre F un principe, discepolo di Machiavelli, avrebbe potuto governare comme il faut le genti dell’Italia meridionale: Festa, Farina, Forca; la prima a favor de’ nobili, la seconda per i lazzaroni, la terza per i baffuti liberali. Di farina vi fu penuria talvolta, ma la festa e la forca hanno divertito i Napoletani con esuberanza.

La “festa”, elemento primordiale e costitutivo del regime borbonico, dividevasi in tre specie; eravi la festa sacra, la festa di corte, la festa profana. Suddividevasi poi in cinque principali segreterie di stato: solennità ecclesiastiche, inseparabili da’ prodigi de’ santi, e da quelli dell’arte pirotecnica: ballo: teatro: accademia: carnovale. V’erano de’ giorni di gaia, in cui, se ballava il principe in palazzo, ogni suddito fedele, che non fosse reverendo o podagroso, doveva mettere le gambe in movimento. E negli ultimi giorni del carnovale, quando S. M., indossato il costume di maschera, e salita sull’indorato carro, a dritta e sinistra, lungo la via di Toledo, prodigava a bizzeffe, sotto la forma d’inzuccherati sassolini, le dovizie della regale sua munificenza, quale onore per ogni suddito devoto e leale di ricevere sulla faccia almeno un sol colpo di quella mitraglia, in commemorazione del bombardamento, che salvò Napoli, il trono, l’altare dalla peste infernale del liberalismo!

Il bon ton nelle provincie consisteva nell’imitare servilmente la depravazione della metropoli.

La gioventù calabrese, briosa per natura, ma pur essa infetta della fatuità che inverniciava quel secolo di ferro, era nel carnevale del 1839 tutta preoccupata de’ diversi costumi da indossare nelle feste di ballo.

Domenico non tralasciava di venire ogni sera in mia casa, ove il ballo e la musica non mancavano. Si può forse ascoltar la messa senza l’organo? Si può riunirsi a veglia senza l’intervento del piano-forte?

Mia madre erasi avvista della corte che quel giovine mi faceva, ed acremente mi aveva rimproverata d’aver dato ascolto alla sua galanteria. Egli è perciò ch’io non alzava furtivamente gli occhi su di lui, se non dopo di essermi ben assicurata ch’essa fosse altrove occupata. Questa manovra di contrabbando mi pesava sì sulla coscienza, ma ignorava il mezzo cui appigliarmi per farne di meno.

Domenico si astenne dall’avvicinarmisi palesemente, e di scegliermi a compagna nel ballo. Cotesto tratto di delicatezza, fonte per lui di molta mestizia, mi sembrò un indizio dell’affetto sincero che per me nutriva; al quale indizio, per maggior mia sicurezza, aggiungevasi l’aver io osservato che egli non aveva mai ardito dirmi una sola parola d’amore, come pure volgarmente si usa. M’era già noto per esperienza, come l’affetto gesticolatore non fosse sempre né verace né stabile.

L’ultima sera di carnevale eran venute da noi moltissime maschere, le quali si divisero nelle altre stanze, troppo angusta essendo divenuta la sala per contenerle.

Un “dominò” mi si accosta. Nel porgermi dei confetti, mi fa cadere in grembo non so che cosa. La raccolsi: un oggetto stava ravvolto in una carta.

Ebbi cura di nasconderlo nella pezzuola, e volai tosto nella mia stanza, dove lo svolsi... già s’intende, colle speranze dedicate a Domenico.

Vi stavano racchiusi un cuore, ed un piccolo biglietto così concepito:

«Ti amo, cara Enrichetta, ti amo! promettimi solo fedeltà, e giuro che sarai mia. Domenico».

Rinascosi in seno palpitante la carta, e, fiera di quel tesoro inapprezzabile, feci ritorno alla festa nella certezza che tra la folla non vi fosse altra donna più felice di me.

Lo ritrovai presso la porta d’una stanza, mentre fingeva di riporsi la maschera. Mia madre, che non l’aveva riconosciuto sotto di quella, era naturalmente scevra d’ogni sospetto.

Mi fermò sul limitare, afferrommi la destra, e ponendo un ginocchio a terra, v’impresse un ardente bacio. Sì per l’emozione, sì pel timore d’essere sorpresi, i nostri labbri rimasero mutoli.

Me ne svincolai, e fuggii.

Di là a pochi giorni, l’avo di Domenico, presentatosi a’ miei genitori, mi chiedeva in isposa pel nipote.

Chiesero costoro la ragione per cui non fosse venuto il padre stesso a fare la richiesta; e l’avo schiettamente rispose, non essere il padre contento dell’unione, avendo intenzione di dare al figlio un’altra sposa: ch’egli, l’avo, mosso dalle lagrime del nipote suo futuro erede, erasi determinato a quel passo nella speranza che il genitore stesso avrebbe finito coll’aggiungere il suo consenso.

Quest’equivoca conclusione, unita alla forte antipatia che mia madre nutriva per Domenico, fece sì che l’avo avesse in risposta, come, senza il consenso del padre, gli sponsali non sarebbero mai avvenuti; che se d’allora in poi avesse il garzone ardito avvicinarsi a me, gli sarebbe stato chiuso l’uscio della casa.

Né mio padre né mia madre mi fecero consapevole dell’ambasciata avuta. Seppi l’accaduto col mezzo d’un amico di Domenico.

La sera si mostrò tristissimo, e tanto poté in lui il timore di vedersi escluso da casa nostra, che usò degli sforzi penosi per evitare di mirarmi. Coll’andar de’ giorni crebbe talmente la sua tristezza, che il padre, affine di distrarlo dalla passione che lo consumava, gli ordinò di partire per Napoli.

Impallidì Domenico all’ingrato annunzio: proruppe in lagrime, supplicò, implorò, cercò, per ottenere la revoca dell’ordine fatale, tutti mezzi che l’amore seppe suggerirgli. Il padre mostrossi inesorabile; talché, quand’ebbe il giovane esaurite le più affettuose preghiere, si alzò di bello, e corse a chiudersi nella sua stanza, dove per due giorni rifiutò qualunque alimento, e donde non uscì se non rassicurato dalla promessa della madre, che gli sarebbe stato permesso rimanere in Reggio.

Allora solamente lo rividi. Com’era pallido e sparuto! Ma l’amor puro si pasce di dolore, si compiace nell’afflizione, si riconforta all’aspetto delle lagrime. Lo ringraziai delle sofferenze, per amor mio sostenute, con un mesto sorriso degli occhi: egli mi ricambiò con un sorriso mesto delle labbra: così entrambi ponemmo in obblio le nostre pene,
«Pieni dell’ineffabile dolcezza
D’un comune pensier ch’altri non scerse».
Senonché da lungo tempo aveva avuto occasione d’accorgermi esser Domenico di carattere eminentemente geloso. Bastava che qualche giovine sedesse al mio fianco un solo istante, o che a bassa voce mi avesse rivolta una parola innocente, per veder il suo volto mutar di colore, e le sue pupille passar di repente dall’espressione soavissima alla feroce, mentre il movimento delle sue labbra indicava il rimprovero. Questo suo carattere m’era causa di martirio nell’impossibilità di comunicarci le idee, essendo cosa oltremodo difficile per me il ricevere una lettera, più difficile ancora, per la sorveglianza di mia madre, il potergli rispondere.

In uno di questi malaugurati accessi di malinconia, troppo frequenti nella natura calabrese, Domenico prese il cappello, e andò via senza farsi vedere per più giorni.

Rimproverato dal suo giovine amico e confidente dell’insussistenza de’ suoi sospetti, ritornò, per annunziarmi d’essersene sincerato; sedette sur una sedia dov’io appoggiava i piedi, e prese a conversare famigliarmente, sicuro che la presenza di mia madre l’avrebbe salvato dall’accusa di volermi corteggiare.

Ma costei non cercava che un pretesto per allontanarlo da me: sufficiente cosa sembrolle d’aver trasgredito il suo ordine. Rimaste sole, mi fece dire che mi attendeva nella sua stanza. La trovai coricata in letto.

Lunga ed amara fu la sua esortazione. Mi trattò da indocile, perché m’ostinava ad amare un uomo, cui né ella né il padre di lui volevano darmi in isposa. Disse essersene accorta dell’umore cupo e geloso di Domenico, nonché de’ dispiaceri che quella gelosia mi cagionava; conchiuse, ch’era tempo ormai di finirla, avendo entrambi stancata la sua pazienza. L’essersi seduto a me dappresso, malgrado il suo divieto, presentava propizia l’occasione per troncare definitivamente i progressi d’un folle amore. A quest’uopo ricevetti l’ordine di non comparire la sera di quel giorno in società, ma di trattenermi sola nella mia stanza.

Io non ignorava lo stile irrevocabile delle materne risoluzioni. Mi ritirai tremante presso Giuseppina, la quale m’attendeva, impaziente di sapere l’esito dell’abboccamento. Questa cara sorella era il mio angelo consolatore. Mi fece sedere, vedendo che le gambe non mi reggevano; cercò d’interrogarmi; non potei rispondere. Mi spogliò allora, assistita dalla fantesca, e mi mise in letto, dove, non sì tosto entrata, fui colta dal primo di quegli attacchi nervosi, che non mi hanno più abbandonata, e de’ quali sovente fui sul punto di restar vittima.

Mi fecero odorare de’ sali. Il mio petto era ansante, le fauci inaridite, un fortissimo freddo facevami balzare sul letto. Dopo un’ora soltanto, le lagrime poterono farsi strada, e scorrere abbondanti per le guancie.

Mio padre, dotato d’impareggiabile mansuetudine, aveva interamente abbandonata alla moglie la direzione delle figlie, né mai si opponeva alle risoluzioni di lei, credendole sempre convenienti. Saputo adunque l’accaduto, egli acconsentiva alla sentenza che escluder doveva Domenico dalla nostra società.

Questi, ignaro di tutto, non mancò di venir quella sera, secondo l’usato. Notò l’assenza mia, ma credette sul principio che qualche cura impreveduta m’avesse trattenuta in altra stanza. Frattanto il tempo scorreva; non vedendomi punto comparire, cominciò a sospettare del vero, e se ne turbò.

S’accostò a mio padre, il quale, incapace d’usare scortesia a chiunque, lo trattò come sempre. S’appressò a mia madre: fu agghiacciato dalla severità di lei, ch’egli non aveva notata nell’entrare in sala. Attese adunque palpitando l’opportunità per potersi avvicinare a Giuseppina, che in quel momento stava discorrendo con giovanette della sua età.

«La signora Enrichetta è malata forse?» domandò finalmente, non appena si fu aperto un varco sino alla sorellina.

«Sì» rispose questa, fissando la madre.
«Ma ieri stava tanto bene! ».

La sorella tacque.

Dopo una lunga pausa, Domenico ripigliò:

«È pure strano il cangiamento della Marescialla a mio riguardo! Ditemi, signorina, ve lo chieggo in grazia, sarebbe forse la malattia di vostra sorella cagionata dall’essermi seduto un istante a lei vicino ieri sera?»

«Credo di sì».

«Dio buono! Pare che la signora madre sia andata in cerca d’un pretesto per allontanarmi. Sono stati tanto innocenti i nostri discorsi, tenuti d’altronde in sua presenza, che non so a qual altro motivo attribuire la mia disgrazia».

Il giovine trasse un sospiro, e continuò:

«Ebbene... non verrò più! Sia fatta la volontà di vostra madre! Vogliate però assicurare vostra sorella, che niente avrà la forza di cangiare il mio cuore per lei».

Si alzò, e senza prendere commiato, senza guardare alcuno, celermente uscì.

Sera nefasta della mia vita! I tuoi effetti non saranno cancellati giammai dalla mia memoria!

La separazione non poteva che esacerbare le furenti gelosie di Domenico. Per mezzo dell’amico suo mi fece conoscere, che se io voleva dargli una prova della mia costanza, doveva astenermi dal ballare con chicchessia.

Niente di più confacevole al mio cordoglio: promisi d’astenermene totalmente.

Una sera mi posi al piano-forte mentre si ballava una quadriglia.

«Perché non balli?» venne a domandarmi la madre, atteggiata di sdegno.
«Non mi sento bene».
«Vorresti, ragazza, darla ad intendere a me! Qui, non m’inganno, ci deve star sotto qualche divieto dell’amante...»
«Vi assicuro che...»
«Bada che non soffro capricci. Alzati, e balla!’».

Mi convenne ubbidire; ma fui tratta dalla danza in uno stato non lontano del deliquio.

Né s’arrestarono lì i rigori della madre. Saputosi che Domenico ronzava l’intera notte intorno alla nostra casa per osservare i passi di coloro che ci visitavano, e conoscere se fra quelli vi fosse per avventura qualche rivale, mi venne imposto di non affacciarmi ad altra finestra, se non a quella solamente che non dava sulla via maggiore, ed era riparata da ogni parte.

Se l’incalzare delle restrizioni ebbe per effetto di fomentare sino allo stato di frenesia l’umore naturalmente permaloso, e la passione fosca del giovine, io, dal canto mio, mi trovai in una di quelle crudeli alternative dalle quali impossibil cosa è l’uscir senza discapito.

Relativo a questa mia situazione avvenne in quel mentre un fatto, che mi credo in dovere di non passare in silenzio.

Messina, cospicua città, situata, come si sa, a dodici miglia di distanza da Reggio, e divisa da quello stretto che in tempo procelloso fa impallidire il più esperto nocchiero, suole festeggiare con pompa solenne l’Assunzione della Vergine per quattro giorni, che cominciano al 12 e finiscono al 15 d’agosto. Questa festa, singolare miscuglio di sacro e di profano, di cristiano e d’idolatrico, di costume europeo e di indiano, mette in gran movimento le genti de’ paesi limitrofi e delle Calabrie.

Due smisurati cavalli di carta pesta, montati da due giganti della stessa materia, veggonsi drizzati nella piazza dell’Arcivescovado. Una pelle di cammello, da’ Messinesi chiamato Beato (non so perché), copre due altri uomini della plebe. Il cammello si accosta ai venditori d’ogni genere, e questi, per devozione, intromettono nella bocca spalancata del questuante quadrupede una porzione della loro merce, la quale viene raccolta in sacchi per le spese della festa.

La parte più rilevante della solennità consiste nella seguente processione: una macchina enorme è condotta per la città. Sopra la stessa messi in movimento rotatorio parecchi pezzi, simboleggianti i corpi celesti, come il sole, la luna, i pianeti, ecc. Vi sono pur fatti rotare de’ cerchi, che grandi alla base, vanno impicciolendosi alla sommità

Bella e sontuosamente fregiata è quella macchina, eretta e posta in azione ad onore di Colei che diede la luce al Dio della carità! Ma le sue funzioni ti rammentano il famoso carro di Jagganatha, o le nefande ecatombe de’ Druidi. A quella vista ti rifugge il cuore, né puoi contenerti dal gridare all’orrenda barbarie.

A’ raggi del sole, della luna, e intorno a’ cerchi sono legati de’ bambini lattanti, le cui snaturate madri, mercé il vile guadagno di pochi ducati che dà loro l’impresario dello spettacolo, li fanno simboleggiare gli angioletti che accompagnano l’Assunta al cielo. Questi innocenti pargoletti, non d’altro colpevoli se non d’essere nati figli di madri inumane, e d’aver veduto il mondo in un secolo non abbastanza dirozzato, scendono o morti o moribondi dalla ruota fatale, dopo di aver girato in sensi opposti per sette ore.

Terminata la festa, o per meglio dire, giunto al termine il sagrifizio, accorrono stipate, affollate, urlanti le madri, l’una respingendo l’altra, questa bussando quella, e tutte di conserva impazienti di verificare se morta o salva sia uscita la respettiva loro creatura. Comincia allora una scena d’altro genere, che talvolta finisce con ispargimento di sangue. Non essendo, pel grande numero, facili a riconoscersi dalle madri i sopravvissuti figli, l’una disputa all’altra il frutto delle sue viscere, mentre le imprecazioni delle disputanti e i lamenti delle più addolorate si mescolano agli scherni assordanti degli spettatori e a’ fischi della ciurmaglia.

Quelle poi fra le devote, che tornano in casa loro prive del proprio figlio, consolansi dicendo, che Maria, invaghitasi dell’avvenente angioletto, ha voluto menarlo seco lei in paradiso. Appagate da tale convinzione, s’intrattengono a banchettare colle femmine del vicinato, infino a che scialacquato sia del tutto il prezzo ottenuto, non dubitando di percepire da’ preti ulteriori soccorsi, in memoria de’ loro angioletti involatisi gloriosamente a’ beati Elisi.

Avvicinavasi dunque il tempo di questa festa, manifestazione di uno de’ sopraddetti tre “f” borbonici. I nostri amici, unitamente a’ miei genitori, progettarono di assistervi. La brigata era di quaranta persone, ed una sarebbe stata la casa che doveva alloggiare tutti.

Io mi trovava agitata, immaginando il cruccio che avrebbe arrecato a Domenico l’annunzio di tale divertimento, perché nella brigata s’erano insinuati dei giovani, pe’ quali egli sentiva un’ingiusta, ma pure straziante gelosia. Ve n’era uno fra gli altri, il quale, ignaro del nostro amore, aveva confidato a Domenico stesso il segreto della simpatia che disgraziatamente io gli aveva ispirata.

Appena seppe il progetto, si abbandonò alle più spropositate smanie, e col solito messo mi fece conoscere, che se avessi lasciato Reggio si sarebbe ucciso. Invano Paolo, l’amico suo, gli fece osservare che esigeva da me cosa superiore alla mia volontà, non essendo presumibile che i miei genitori volessero lasciarmi sola; né d’altronde potendo io lottare contro il loro comando. Cercò persuaderlo co’ più efficaci argomenti, promettendogli inoltre ch’egli stesso non si sarebbe mosso dal fianco mio, e m’avrebbe dato il braccio nelle passeggiate, per evitare ch’altri mi avesse approssimata. Gli giurò di più, in nome dell’amicizia che li univa, come schietto e sincero, che al suo ritorno gli avrebbe reso conto della mia condotta rispetto ai rivali immaginarii.

Rassicurato alquanto da questa promessa, mi precedette di poche ore nel viaggio; talché, non appena giunti al porto di Messina, lo vidi lungo il molo che stava aspettandomi. Egli ci seguì da lontano, e conosciuta la nostra dimora, s’installò in un caffè, donde senza esser veduto da mia madre, potea vedere i balconi della casa da me abitata.

Paolo mantenne puntualmente la promessa. Si allogò a me dappresso, come l’ombra mia stessa, facendo del corpo suo una barriera insormontabile per ogni altra persona che avesse voluto avvicinarmisi.

Mi sapeva mill’anni che, scevro di qualche dispiacere, giungesse l’ultimo giorno della festa. Disgraziatamente non fu così.

Erano le nove di sera, allorché Paolo mi disse che usciva un momento solo, per fare acquisto d’un oggetto che gli era necessario.

«Fate presto, Paolo, per carità» gli dissi: «sapete bene che alle dieci dovrò seguire la brigata al palazzo della Borsa».

«Sì» rispose «ma c’è un’ora ancora di tempo, ed io chiedo solamente pochi minuti».

Ciò detto, se ne partì.

Non aveva appena scesa la scala, che mia madre ordinò a me e a Giuseppina di prepararci per uscir di casa.

«Ma che faremo» le dissi, «sino alle dieci, ora fissata per recarci alla Borsa?»

«Andremo attorno per godere della luminara».

«Non siamo tutti» soggiunsi: «manca ancora qualcuno della comitiva».

«Chi manca ci raggiungerà» replicò essa in tuono che non ammetteva replica.

Mi tacqui, e feci lentamente gli apparecchi necessari, colla speranza che Paolo esser dovesse di ritorno per darmi il braccio.

Mia madre, Giuseppina e gli altri aspettavano già pronti che mi unissi a loro. Strappai un bottoncino dal guanto, e pregai che avessero la pazienza di attendermi, finché con un ago me lo riattaccassi.

«Inutile!» fece mia madre in collera. «Eccoti uno spillo, che farà le veci del bottoncino».

Presi lo spillo, e seguii la brigata, guardando affannosamente se Paolo arrivasse.

Una voce mi scosse:

«Signorina, poiché il vostro cavaliere è assente, vorrete gradire il braccio mio, invece del suo?».

Alzai gli occhi: era quel desso, che aveva detto a Domenico sentir particolare simpatia per me... Oh, Dio, quale imbarazzo! Come fare per disimpegnarmene? Restai in forse, se accettare, o bruscamente ricusare. Mia madre mi guardava fissa; parecchi altri signori avevano udita l’offerta.

L’urbanità, la confusione, il timore prevalsero. Gli porsi il braccio per metà, come se paventassi qualche contagio, e seguitai il cammino senza far motto.

Allo svolgere della strada, non ostante l’immensa calca di gente, chi mi veggo innanzi? Domenico. Egli moveva alla volta mia.

Il lividore di un morto è forse minore di quello che copriva il suo volto: aveva l’aspetto d’un vampiro infuriato.

Guardò biecamente, ferocemente il mio compagno, indi, volto quell’occhio terribile su di me, avventossi, come per atterrarmi, pronunziando parole inintelligibili.

Misi un grido. Il frastuono della strada, per buona fortuna, lo coprì.

Frattanto la folla mi aveva separata da Domenico, e siccome opposte eran le vie che facevamo, egli tirò per la sua, noi proseguimmo la nostra. Non perciò sedato fu il mio spavento, ché anzi, consapevole dell’impetuoso carattere dell’innamorato, temetti non ritornasse munito di un’arma micidiale, onde attentare alla mia od alla vita del povero giovine.

Mi quetai un poco, soltanto quando fui giunta alla Borsa. Entrata nella grande sala, dissi a Paolo sotto voce di seguirmi al balcone, ed ivi gli narrai l’accaduto; al che, mostratosi questi dolentissimo, disse di volere mettervi pronto riparo, correndo immantinente in cerca dell’amico suo, e rappresentandogli la mia innocenza.

Chi ha provato l’amore, può di leggieri comprendere quale fosse il mio stato. Amava Domenico con amore tenero ed affettuoso; era attentissima a non dargli alcun motivo di gelosia ed intanto passava ai suoi occhi per donna frivola ed incostante.

Spuntò l’alba, sempre desiderata dagli amanti afflitti, e la gente di servizio cominciò a fare gli apparecchi del ritorno. Poche ore dopo eravamo in Reggio.

Paolo fu sollecito a venir la sera prima dell’usato. Lo interrogai cogli occhi se avesse veduto Domenico. Con un leggero chinar di capo m’accennò di sì.

Mi raccontò più tardi, che il furore aveva condotto l’amico suo ad un passo di pazza disperazione. Determinato di troncare meco, ed una volta per sempre, qualunque relazione, egli aveva promesso a sua padre di partire senz’altro indugio per Napoli. La parola era già data, né più potevasi ritrattare. Nondimeno, gli acerbi rimproveri di Paolo e gli atti della mia giustificazione aveano esercitato un’influenza benefica sullo spirito di lui, né era lontano dal pentirsi del passo, che fatto aveva in un momento di folle dispetto.

M’alzai, non potendo frenare la commozione prodotta dalle parole di Paolo, e ritiratami in disparte, meditai un istante. Poscia, ripresa la perduta energia, tornai ad occupare il posto abbandonato accanto al confidente delle mie pene.

«Un ultimo favore vi chieggo» gli dissi con fermo accento. «Vogliate riabboccarvi con Domenico, non per altro se non per annunziargli a nome mio che la parte offesa sono io. Può partire o restare a suo agio, non me ne curo più, conoscendomi innocente della colpa che m’attribuisce. Possa trovar egli in Napoli donna più fedele di me!».

Da quel momento, coerente alla risoluzione presa, e forte della mia lealtà, feci le viste di volermi totalmente staccare da lui; ma egli, sinceramente ravvedutosi, avea digià riprese le consuete passeggiate sotto le mie finestre.

Era un giorno di domenica, ed il giorno fissato alla sua partenza era il seguente martedì.

Come ho già detto, trovavasi nella nostra casa un coretto che dava nell’interno della chiesa di Sant’Agostino. Ivi recatami per ascoltare la messa, vidi Domenico di rimpetto a me.

L’amore, che spento non era nel mio cuore, malgrado gli sforzi che faceva per soffocarvelo, mi fece volgere lo sguardo verso di lui. Finita la messa, volea ritirarmene: al patetico segno ch’egli mi fece di volermi arrestare per poco, ebbi la debolezza di condiscendere.

Come tutta la gente fu uscita di chiesa, egli, avvicinatosi al cancello, e giunte le mani in atto supplichevole, mi disse: «Perdonami! Confesso il delirio mio!».

Lo guardai: l’espressione del suo volto era tale da disarmare il più forte risentimento. Colle lagrime agli occhi risposi:

«Crudele! posdomani parti, m’abbandoni, e chiedi perdono!?»

«Per questo sacro luogo in cui ci ritroviamo» soggiunse, «giuro me fra un mese sarò restituito a te, malgrado gli ordini del padre, il quale mi vorrebbe allontanato per un anno intero!»

«Accetto il tuo impegno: a questo patto dimentico gli oltraggi». Un leggero tossire ci avvertì essere entrato qualcuno in chiesa.

«Addio!» disse Domenico.
«Addio!» ripetei con voce velata dalla commozione.

Allontanossi, e giunto alle spalle dell’altare, presso alla porta minore della chiesa, si volse di nuovo, e mi disse:

«Non mi tradire!».

Tradirlo! Or che mi rendeva l’amor suo, qual altra fortuna poteva io desiderare?

Nessun commento:

Posta un commento