lunedì 25 maggio 2009

Luther Blisset: «Q», romanzo contemporaleo sulla figura di Pietro Carafa. - Parte Iª cap. 6°: Frankenhausen 24 maggio 1525.

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A seguire:
– PARTE SECONDA – PARTE TERZA - EPILOGO

PRIMA PARTE
Il Coniatore
Frankenhausen
(1525)
Capitolo 6
24 maggio 1525

Poche ore di viaggio e le colline della Selva Turingia erano già uno sbiadito riflesso nel grigio cupo del cielo alle mie spalle. Avevo da poco superato la fortezza di Coburgo, diretto alla locanda del borgo di Ebern. Ancora due giorni di marcia, tre al massimo, lungo le valli boscose che l’Alta Franconia cominciava a spalancare di fronte a me. Una strada larga, normalmente affollata da carri di mercanti tra l’Itz e il Meno. Quella sera a Ebern, il giorno dopo a Forscheim, per evitare gli sguardi indiscreti di Bamberga, poi Norimberga e Bibra finalmente.
Per la prima volta ho sentito di potercela fare. Questa fatica, che torna ad addentarmi, l’avevo scordata, annullata dalla forza di chi si arrampica oltre l’orlo della disfatta.

***

Mi è venuta incontro da lontano, mentre il cielo si colmava di nubi: dolente, lacera, tragica. Una coltre sottile la precedeva, impasto di luce tenue e grigiastra, con la pioggia leggera che rende incerti vista e respiro, sulla spianata della valle stretta, che contavo di superare entro il tramonto.
Procedeva lenta, forse qualche ora di cammino alle spalle dall’incedere del giorno, dopo una notte accampata chissà come, con davanti il buio insopportabile di un viaggio senza approdo.
Non avevano carri, né buoi né cavalli. Sacchi sulle spalle. Fiumana di scampati, inondazione di miseria per le torri splendide di Coburgo.
La colonna di umanità massacrata strisciava, inerme, schiacciata dall’orma gigantesca del Cielo. Trascinarsi spossato di masserizie, gemito di infermi sotto bende sudicie, anziani adagiati su lettighe di fortuna. Litanie incessanti e pianto di bambini a intonare lo strazio.

Solo alcune donne provavano a dare una direzione ai corpi: risalivano più volte quelle fila scomposte, dando conforto ai feriti o incoraggiando ad avanzare chi cedeva al peso della sciagura; sempre con piccoli avvinghiati alle spalle, alle braccia o in grembo, volti tragici e alteri. Quella forza impensabile, solenne, infondeva un alito di vita nella carne sventurata di chissà quale villaggio, lo stesso incontrato giorni fa, o un altro, o ancora. Esisterà un brandello di mondo sfuggito al cataclisma?
Ne ho seguito la fatica dei passi, bordeggiando qualche decina di metri alla destra, per un tempo immobile, eterno. Ogni tanto uno sguardo, un lamento implorante mi attraversava da parte a parte. Centinaia di uomini sottomessi a un solo soldato: non un gesto di disprezzo, non un accenno di reazione. Sfiniti, tutti, attoniti davanti alla rovina. A me, fuggiasco sotto le spoglie dell’assassino, si rivolgeva la preghiera dei Senzaniente.
Poi, un volto di donna, rompendo l’inerzia, mi è venuto incontro. Vivo, nell’immane stanchezza, staccandosi dalla colonna piangente, dopo aver affidato ad altre braccia i due cuccioli affamati che portava con sé.
- Non abbiamo più nulla, soldato. Solo le ferite degli storpi e le lacrime dei nostri bambini. Cos’altro ancora?
Non ho trovato parole, a lenire il rimorso per l’impotenza e la colpa di essere vivo, di fronte a quegli occhi fieri, chiodi conficcati nella carne. Dovevo scendere da cavallo, raccogliere i suoi figli, darle denaro e aiuto. Soccorrere la mia gente, la schiera degli eletti rovinata nel fango da cui voleva affrancarsi. Scendere e rimanere.
Ho colpito con forza i fianchi del cavallo. Quasi alla cieca.

(a seguire)

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