domenica 17 maggio 2009

Le Memorie di Enrichetta Caracciolo: IX. Il campanello.

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IX
Il campanello

Il giorno 21 marzo, dedicato a san Benedetto, presi l’abito di educanda. Le monache non eransi sollecitate di vestirmi prima, per rispetto alla morte di mio padre, di cui io portava tuttavia il lutto.

Semplice fu la cerimonia della vestizione. La tunica, riposta in una guantiera, fu recata in chiesa, e deposta sull’altare di san Benedetto. Ivi il noto canonico disse la messa, la benedisse, ed io l’indossai.

Era di lana nera ordinaria, con maniche strette sino al polso, con un piccolo scapolare pendente dalle spalle, un grembiale di mussula bianca, ed al collo un fazzoletto della stessa stoffa. I capelli passavano sopra le orecchie, ed erano sostenuti da un pettine. Quest’acconciatura del capo e le pesanti scarpe, furono le cose che mi arrecarono maggior dispiacere e disagio.

Finita la messa, il canonico salì al parlatorio per contemplarmi in quella nuova foggia, e me ne rivolse le sue congratulazioni.

Ma gli argomenti del confessore non riuscivano a dissuadermi dal disegno di lasciare il convento, e le sue assiduità, ripetute tre o quattro volte la settimana, lungi dall’ispirarmi affetto per la vita monastica, non facevano che aggiungere fastidio alla mia naturale ripugnanza per quello stato.

Non tralasciava io pertanto di scrivere indefessamente a mia madre, supplicandola a voler mantenere la sua promessa; ma le risposte di lei rispondevano debolmente alle mie aspettative. Nel mese di marzo mi disse d’avere malata una sua figliuola; in quello di aprile, riferendosi alla morte della zia Lucrezia, poco innanzi avvenuta, mi faceva osservare che non conveniva lasciare così presto l’altra zia badessa; nel mese di maggio trascurava di rispondermi, ed alfine in quello di giugno io cadeva inferma. Il generale Salluzzi, Giuseppina, ed una mia sorella maggiore, che allora trovatasi in Napoli, con unanime risentimento notarono a mia madre tale trascuratezza. Essa rispose, non poter venire personalmente, ma però trovarsi in Napoli una dama messinese, sua intima amica, la quale, dovendo fra poco rimpatriare, volentieri si sarebbe presa l’incarico di accompagnarmi per viaggio: sarebbe poi stata sua cura di prendermi da Messina a tempo debito.

Il ricevimento di quella lettera mi colmò di gioia... Ritornare in Reggio, ricuperare il sommo bene della libertà, rivedervi Domenico! Mi risovvenni dal sospiro d’Alighieri...
Libertà vo cercando, ch‘è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Il mio confessore, avvedutosi di tale sentimento, lo dichiarò peccaminoso; le suore mi dissero ingrata verso Dio, verso san Benedetto, verso loro, e, per quasi un mese che quella dama messinese in Napoli si trattenne, non fecero che sfegatarsi a squadernarmi assurde storielle intorno a persone cadute nella dannazione, per non aver dato ascolto alla voce del Signore che le chiamava al chiostro; per esempio di un Bambino di legno rimasto col piedino alzato, in quell’atto stesso che dava un calcio a M. C., educanda uscita del monastero; di talune percosse date dalla statuetta di san Benedetto alla lastra della sua nicchia; di apparizioni di anime del Purgatorio, di streghe, di vampiri, di demonii, tutte cose, quanto spropositate, altrettanto nuove per me. Tuttodì tormentata da simili fandonie, proprie piuttosto du bon vieux temps delle crociate che di questo nostro, e non meno atte a snaturare la mente che a deturpare la coscienza e il cuore, pregai il cielo che sana volesse conservarmi la povera ragione.

Frattanto il tempo della mia liberazione si approssimava.

Due giorni prima di quello destinato all’uscita, mi fu recata una lettera. L’aprii: era anonima, e cominciava con questa frase: «Leggetela ai piedi del Crocifisso!»

L’autore dicevasi persona, cui l’anima mia pericolante spirava pietà. La risoluzione di ripudiare lo stato monastico era, a parer suo, opera di Satanasso, il quale erasi preso l’impegno di attirarmi seco nell’Inferno; per la mia lunga renitenza, Iddio mi abbandonava agli artigli del Demonio; essere nullameno tempo ancora di fare ammenda del passato, rimanendo nel chiostro. Conchiudeva, che nel mettere il piede fuori del monastero sarei stata sospinta da mano invisibile, al quale segno del divino intervento se non ne fossi stata dissuasa, egli (lo scrivente) nel dì dell’estremo giudizio sarebbe stato il mio inesorabile accusatore innanzi a Dio.

Esaminai quella scrittura: non mi parve totalmente nuova. Esplorai le mie carte: non vi trovai alcun carattere somigliante. Pure era ben sicura di averla altre volte veduta. Domandai alla portinaia chi avesse recato quel foglio; mi rispose: «Un tale, ignoto a me, che dopo di averlo posto nella ruota, frettoloso se ne partì».

In un angolo dell’arcato corridoio eravi una cappelletta, dedicata a sant’Antimo, santo di origine basiliana. Passandovi quel giorno stesso in compagnia di mia zia, vi osservai una preghiera manoscritta su una tavoletta appesa al muro. Mi approssimo, la guardo: il carattere era perfettamente simile a quello della lettera anonima, ed appunto in quel luogo lo aveva altra volta veduto.

Ricondussi mia zia al coro, e volai in cerca della conversa, cui la cappelletta apparteneva.

Seppi che la preghiera erale stata scritta da quel pretino, che al vedermi passare pel parlatorio, soleva cinguettare: «Ps! cara, vien qua!».

Aveva intanto disposto mia madre che, uscendo dei monastero, mi portassi in casa della sorella maggiore e colà attendessi la signora che doveva accompagnarmi.

A cagione dei fantastici ragionamenti che i preti e le monache mi tenevano tutto il giorno, i miei sonni erano spesso turbati da apparizioni spaventose di spettri, di demonii, di sante reliquie. La notte, che precedeva all’uscita, la commozione mi fece prendere riposo tardissimo.

Era adunque fra la veglia e il sonno, allorché parvemi udire all’orecchio il tintinnìo d’un campanello. Mi desto incontinente, schiudo gli occhi, tendo l’orecchio: sono circondata dal solito silenzio.

Di là a poco raccontai ad una monaca l’effetto di quella allucinazione. Essa si mise a piangere, a farsi il segno della croce, a strillare:

«Miracolo! Miracolo!»

«E chi può avere operato il miracolo?» le domandai.

«Ci vuoi tanto a capirlo? E il campanello di san Benedetto, che ti chiama».

Mezz’ora dopo, il convento era sossopra: le monache, le converse, le educande non ragionavano d’altro che del miracolo, e già parlavasi d’una messa, destinata a perpetuarne la memoria negli annali e ne’ fasti del chiostro.

Ma, non ostante il misterioso tintinnìo, restai ferma nella mia deliberazione. All’ora fissata abbracciai teneramente la vecchia zia, valicai esultante la soglia del monastero, e dopo d’aver visitato Giuseppina, che non aveva veduta da qualche tempo per la sua infermità, mi recai in casa dell’altra sorella, ove mi trattenni dieci giorni, aspettando l’ora della partenza.

Ma era scritto che il mio riscatto esser dovesse di breve durata!

In questo mentre io riceveva da Reggio due lettere; erano delle altre due sorelle, colà maritate, che, per urgenza e a tutta possa, mi consigliavano di restituirmi all’abbandonato cenobio. Erano poi dolorosissime le ragioni che le inducevano a darmi tale consiglio. Mia madre era in procinto di passare a seconde nozze; Domenico, posto in oblio l’amor mio, ed impassibile alle mie sventure, erasi dedicato ad altra donna; del resto, io correva il rischio di passare da un monastero della capitale in uno di quelli della provincia.

Queste infauste notizie mi atterrirono: scaricavasi d’un sol tratto sul capo mio tutto quanto il peso dell’orfanezza.

Dopo d’aver lungamente ponderate le condizioni della critica situazione in cui quelle novelle mi ponevano, mi spinsi, benché a malincuore, a domandare, se voleva il cognato ritenermi presso di sé, insino a che fosse piaciuto al Signore di procurarmi altro rifugio. Il cognato gentilmente vi consentì.

Deliberai allora che, quando quella dama di Messina fosse venuta per prendermi seco lei, le direi che si partisse sola. Così feci, ed essa se ne partì senza di me.

Ma da lì ad otto giorni con una lettera fulminante mia madre protestava di non voler sopportare in pace la mia disubbidienza. Ella erasi trasferita a Messina per ricevermi, e non avendomi incontrata, come s’aspettava, era montata in furia.

Non basta questo. Il ministro di polizia citava nello stesso tempo mio cognato, per indurlo a farmi subito partire, conforme al volere di mia madre.

«Cara cognata» mi disse quest’uomo dabbene, dopo l’avvertimento ricevuto: «vi ho offerta di buon grado l’ospitalità in mia casa, ed avrei seguitato a ritenervi con piacere, se vostra madre non ne mostrasse rincrescimento; ora, nel modo che le cose vanno, spiacemi di dirvi che non posso resistere agli ordini di mia suocera».

Io era recisamente licenziata.

Che fare? Dove andare? A chi ricorrere? Mi trovava in un bivio terribile. Un carcere a destra, un altro a sinistra, e d’ogni intorno l’abbandono e la desolazione!

«Dio mio!» diceva a me stessa, non potendo contenere le lagrime: «che mai sarà di me, priva, come mi trovo, di mezzi, priva d’ogni appoggio, priva per fino della mia volontà? Se un destino crudele muove tutto a congiura contro di me, non v’ha almeno qualche legge pietosa che mi difenda?».

Fu suonato all’uscio: era un amico di casa settuagenario, curvato sotto il peso degli anni. All’udir l’accaduto, quel buon vecchio mi esortò a ritornare nel monastero, finché, diceva, fosse dissipata la tempesta che addensavasi sul mio capo; più tardi poi si sarebbe cercato di rappattumare la madre con me. A questo consiglio si conformarono eziandio e la sorella ed il cognato ed altre persone famigliari, né, a dire il vero, scorgeva neppur io, fuori di quello, altro schermo che mi campasse dalla disperazione.

Non sapendo dunque a quale miglior santo rivolgermi, secondo il detto comune, mi feci il dopo pranzo ricondurre al convento. Ivi, chiamata la zia in disparte, le dissi volermi novellamente chiudere per pochi altri mesi ancora, al che essa rispose, che sopra tale risoluzione faceva d’uopo consultare la disposizione delle monache.

Poco dopo, convocate queste nel parlatorio, e udita per bocca della badessa la mia domanda, risposero, che mi avrebbero accolta volentieri nello stabilimento, se dichiarava, in quell’istante medesimo, di rientrarvi non provvisoriamente, ma per farmi religiosa; nel caso contrario, dichiaravano di volermi chiudere le porte.

Quale orribile alternativa!

Mia sorella, vedendomi sulle spine, notando massimamente l’esitazione mia nel rispondere, mi esortò sottovoce a dire pel momento di sì, che poi, rientrata, non mi avrebbero di leggieri respinta.

Me ne persuasi, e risposi sommessamente, che rientrava col disegno di farmi monaca.

«Affermatelo pure ad alta voce» mi disse la badessa. «Siete alfine determinata di dare i voti?».

Il cuore mi batteva forte, il capo mi girava: credeva di venir meno. Chiesi d’una seggiola, tersi colla pezzuola il freddo sudore che mi colava dalla fronte, e con voce di agonizzante risposi:

«Sì».

Il dado era tratto… fatale Sì!

Non appena ebbi pronunziata l’affermativa, uno scoppio d’acclamazioni e di festose grida mi percosse l’udito. Le monache tutte proruppero di comune accordo in proteste, tendenti ad assodare, che la mia conversione era effetto manifesto del campanello di san Benedetto, da me stessa inteso qualche ora prima della mia uscita; perloché con tutta fretta mandarono uno stuolo di converse sul campanile per suonare a festa.

Nell’udire a quell’ora insolita le campane i vicini fecero domandare che cosa fosse successo alle monache; e queste divulgarono largamente che la nipote della badessa erasi per superiore ispirazione dichiarata religiosa.
Perduta d’animo, confusa, dalle inaspettate combinazioni soperchiata, io tremava a guisa di foglia cadente al vento d’autunno.

Dato pertanto l’impegno di chiudermi il giorno appresso, me ne tornai in casa della sorella, immersa nella più cupa costernazione; essa pure mostravasi molto dolente dell’andamento che l’affare avea preso all’improvviso.

Il suono funesto delle campane rintronò al mio orecchio per tutta la notte: mi pentii cento volte di aver detto quel sì, ed accusai me stessa di fiacchezza.

Ma guai a chi è trascinato dalla fatalità!... Alle dieci della mattina mi avviava al convento, alle porte del quale parecchie persone famigliari mi attendevano.

Fui ricevuta con nuova scampanata a festa, e collo sparo dei mortaletti, alla cui esplosione una folla immensa di gente si ragunò.

Per tutta quella giornata d’altro non si ragionò, che del miracoloso campanello, e della mia prossima vestizione. Il canonico gongolava di gioia, le suore ne esultavano, era un andirivieni continuo nella chiesa e di preti e di confessori. Il cardinale Caracciolo, e il vicario vennero pur essi a congratularsi meco della mia risoluzione, e la sera un lauto trattamento di gelati e di pasticceria fu offerto dalla mia zia alla comunità. Insomma, per vincolarmi ne’ lacci, dov’era incappata, in modo da non potermene più disimpegnare, i preti e le suore strombazzarono il prodigio di san Benedetto e l’atto della mia conversione con ogni mezzo possibile di pubblicità.

A sollievo delle solitarie pene che m’attendevano, m’era provveduta di alcuni volumi, che cacciai nel fondo del baule. Eranvi fra quelli la Bibbia, il Manuale d’Epitteto, e le Confessioni di sant’Agostino. Aveva pur cercato delle Consolazioni di Boezio, ma non mi venne fatto di rinvenirle. Mi fu bensì da mano amica favorito un altro libro, il cui titolo pareva alla mia situazione particolarmente confacevole: era la Solitudine di Zimmermann. Da quello scritto mi riprometteva una novella vena di conforti, e però mi sapeva mill’anni di cominciarne la lettura.

Come, dopo il trattamento dei gelati, si furono le monache ritirate, preso a mia volta commiato dalla zia, m’affrettai di tirar fuori del baule il sospirato volume. Con quale palpitante avidità ne divorai al lume della lucerna le prime pagine! La storica facondia, lo stile animato e leggiadro, la soave malinconia, il movimento de’ sentimenti e delle passioni, con che l’autore studiasi d’infondere l’amore della solitudine a chi lo legge, mi rapirono fin dal principio in una sfera sconosciuta di poesia, e ringraziai la provvidenza d’avermi dato a compagno un maestro, capace di poetizzare le amarezze dell’esilio, di rendermi affezionata alle mie catene, di temprare il mio cuore ribelle all’uniformità dell’inerzia, alla perpetua monotonia del quietismo.

Ma di repente un triste pensiero m’assalì.

«Cotesto filosofo, che sugl’incanti della solitudine a larga mano profonde i fiori dell’eloquenza, era egli infatti il mio compagno di prigionia? Era egli stato, per forza superiore ed ineluttabile, costretto, al par di me, a consumare il suicidio della propria volontà? Egli, che con tanto ardore decanta i vantaggi del ritiro, conosce forse come sa di morte la solitudine, quando priva è d’affetti, di vincoli, di memorie, d’aspirazioni; la solitudine, sfrondata da ogni germolio d’amore, impastoiata da mille pratiche, l’una più servile dell’altra, sentenziata a perenne ed ignobile sterilità?»

Ricaddi più che mai nell’abbattimento. Una mano di ferro m’adunghiò alla gola: credetti di restarne soffogata.

L’orologio del vicinato aveva già suonato il tòcco dopo la mezza notte. Richiusi il libro, spensi il lume, e spalancai la finestra in cerca d’aria.

Era il cielo velato da foschi nuvoloni, vaganti a seconda del vento. All’estremo orizzonte qualche stella romita avventurava un raggio, offuscato dalla caligine; e la luna, involta pur essa nella nebbia, batteva con incerta luce le mura del monastero. Alcune goccie di pioggia, che di tratto in tratto scrosciavano sul lastrico, interrompevano per un istante il vasto silenzio, e poi tutto rientrava nella muta solitudine.

Mi venne in mente di scrivere a mia madre una lettera grondante dì lagrime. Riaccesi la lucerna, ne gettai lo sbozzo sulla carta, ma troppo agitato giudicando lo stile, lo stracciai subito.

«Non sarebbe meglio» domandai a me stessa, «confidare alla zia le mie angustie? Ma ella dorme a quest’ora! La sveglierò».

Per giungere alla sua stanza, bisognava traversare un tenebroso corridoio. Bussai all’uscio: nessun risponde. Torno a bussare: la conversa riconosce la mia voce, ed apre, sgomentata da tale vista.

Nel vedermi a quell’ora, e sì fortemente conturbata, anche la badessa trasecolò. Dopo aver fatto uscire la conversa:

«Cara zia» le dissi, contenendo appena la commozione che m’agitava: «duolmi assai di recarvi tante e sì gravi molestie; ma il tempo stringe, gli affari miei camminano con soverchia celerità, poiché non voglio lasciarmi sorprendere dagli eventi al di là del dovere».

L’informai allora minutamente del concorso di circostanze, che mi avevano indotta a ritornare nel monastero, non senza la riserva d’un imminente e definitivo riscatto, e conclusi il ragionamento dichiarandole ch’io provava per lo stato monastico la più ferma ed insuperabile ripugnanza.

La povera vecchia diè tosto nel pianto, e fattosi delle mani velo, esclamò:

«Lassa! Quale vergogna attendeva la mia vecchiaia, e l’ultimo mio badessato! Che mai diranno le monache? Che dirà il cardinale? Che dirà il vicario? Che dirà il mondo intero? Chiameranno pazzerella te, e me più pazza ancora, per averti persuasa a rientrare. E la riputazione del convento!... E il campanello di san Benedetto che ha suonato!... E le gazzette che ne parleranno!... Qual ampia materia di scandalo! Quale argomento di favole presso gl’increduli della città!’ ».

A queste riflessioni la poveretta si diede a piangere e singhiozzare dirottamente.

Il turbamento di quell’ottuagenaria, la sua somiglianza col mio adorato padre, al quale io non aveva cagionato mai il menomo cruccio, queste cose mi scossero. Veggendo ch’ella non si dava né pace né tregua, e andava ripetendo lamentevolmente: «Ahimè, quale tremenda sventura! Quale vergogna!» le presi una mano fra le mie, e dando allora libero sfogo al dolore, «Amata zia,» le dissi, «ricoricatevi, e datevi pure pace: contro il destino mio non mi rivolterà più».

Alzò la testa, mi guardò fissa: io, senza prender fiato:

«Sì» le soggiunsi, «mi farò monaca. Mi costerà la vita: una disgraziata di meno: ma non amareggerò per certo gli ultimi giorni di vita della sorella di mio padre!».

Non potei andar oltre, perché la foga dei singhiozzi mi soffocò le parole. Restammo entrambe abbracciate per qualche tempo senza dir motto. Alfine riprendendo essa il discorso, e sul mio capo poggiando la santa reliquia che pendeva al di lei collo:

«Sta’ tranquilla, figlia mia» mi disse. «Iddio e il nostro patriarca ti sosterranno in questo sagrifizio. Pregherò dalla mattina alla sera per farti venire la vocazione che ti manca, e sarò esaudita».

Volle da me la promessa di non ripetere a chicchessia gl’incidenti di quella notturna conferenza, e lo promisi.

Il mio sagrifizio da quel momento era consumato: mi considerai una vittima.

L’ingresso del giornalismo è interdetto nel convento. Ciò nondimeno, tiratami il canonico in disparte la seguente mattina, mi pose sott’occhio due giornali, umidi ancora dalla stampa, ove davasi al pubblico la notizia della mia deliberazione. Dicevasi in uno di quei fogli:

«Ci facciamo solleciti di partecipare un fatto, che a’ devoti d’ogni classe recherà piacere. Una delle figlie del defunto e compianto maresciallo Caracciolo, la signorina Enrichetta de’ principi di Forino, giovine di rara pietà, si è determinata di ripudiare le vanità del mondo, per prendere il velo del monastero di San Gregorio».

Portava l’altro diario, organo ben noto della pretesca consorteria:

«Il campanello di san Benedetto ha tornato a risuonare poc’anzi, e questa volta per conquistare all’angelica regola benedettina un’altra Caracciolo, in età tenera, e discendente in linea diretta da san Francesco dello stesso cognome. Questa giovinetta, che somma reluttanza avea mostrato nell’abbracciare lo stato monastico, ora, per essere stata evocata durante il sonno dal suddetto miracoloso campanello, ha formalmente espressa la sua intenzione di farsi monaca... Empi e miscredenti, favete linguis animisque! »

Intanto mia madre non mi scriveva. Le indirizzai una lettera; un’altra ne scrisse mia zia per annunziarle la mia risoluzione di farmi monaca. Rispose non volerlo affatto permettere, e per molti mesi oppose la più ostinata resistenza. Era suo intendimento, diceva, di maritarmi a persona di suo aggradimento, né mi avrebbe ritenuta nel chiostro, se non infino a che tale opportunità si presentasse. Se non che, soggiunse mia zia, non poteva essa opporsi ai decreti della Divinità.

Questi decreti per altro non potevano effettuarsi immediatamente. Al mese d’agosto del 1840 non aveva ancora raggiunta l’età disciplinare per vestirmi monaca; compiva vent’anni nel 1841. Si dovette perciò attendere sino al mese d’ottobre di quest’ultimo anno, ossia un intervallo di venti mesi dopo il mio primo ingresso nel chiostro.

Questo tempo fu dalla comunità dedicato ad apparecchiare a spese mie... i confetti pel giorno della festa. Frattanto mia zia, che per un intero decennio aveva esercitato le funzioni di badessa, fu surrogata da un’altra Caracciolo, donna piuttosto burbera e rigorosa. Questo rigore, contrapposto alla soverchia affabilità di mia zia, fece sì che malcontente ne uscissero tutte le monache.

Quaranta giorni prima della mia vestizione fu deciso, per contentare mia madre, ch’io passassi questo spazio di tempo presso di lei. Però, prima di uscire, mi fu fatto sborsare per le spese della funzione ducati 700, e qui cade acconcio di notare, che l’egregio generale Salluzzi mantenne la sua promessa, donandomi ducati mille.

In questo mentre mia madre, reduce dalla Calabria, prese alloggio in casa di Giuseppina di conserva colle mie due sorelline. Tanto essa che gli altri parenti, nel notare la mia rassegnazione ad un male che ormai sembravami inevitabile, riputarono vera e spontanea la mia vocazione. Dal canto mio, dovendo rinunziare al mondo per sempre, e volendo evitare ulteriori rammarichi, schivai, per quello spazio di tempo, e teatro, e passeggio, e società. Tentai soltanto un giorno di cantare sul piano-forte un’arietta popolare, quella che tanto era piaciuta altra volta a Domenico; ma la commozione che mi sorprese, ma i rimpianti amari che nel cuore mi ripullularono, diedero ai miei nervi sì gagliarda scossa, che d’allora in poi feci divorzio anche colla musica, né suonai più che l’organo della chiesa.

Più d’una volta mi venne il pensiero di aprire il mio cuore al Generale, mio secondo padre, e chiedergli aiuto: ma la parola data mi chiudeva le labbra. Egli aveva già sborsato il danaro, del quale molta parte erasi presa; ora, volendo pur mancare all’impegno solenne, fermato colla zia e colle monache, poteva io più ritrattarmene, senza far trista figura davanti al benefattore?

Non vi era alcuno scampo plausibile. Doveva assolutamente chiuder gli occhi, ed abbandonarmi alla discrezione della fatalità.

Spuntò il critico giorno. Una folla di parenti e d’amici affluì fin dal mattino nella sala di mio cognato: gli uomini discorrevano allegramente; le donne chiassavano, le zittelle si erano impadronite del piano-forte; io sola era mesta con in bocca l’amarezza dell’assenzio.

A dieci ore fui chiamata all’allestimento. M’inghirlandarono di fiori gemmati, a guisa di sposa: mi fecero indossare un abito sontuoso di velo bianco, ed al capo mi attaccarono un altro velo dello stesso colore, scendente sino ai piedi.

Quattro dame assistettero all’acconciatura, due altre dovevano accompagnarmi: la duchessa di Corigliano e la principessa di Castagnetto.

Conformandosi alla consuetudine, queste dame cominciarono dal condurmi a diversi monasteri, onde farmi vedere dalle altre monache: le seguitai automaticamente, muta d’accento, col pensiero assente. Mi scossi solo, allorché seduta nella porteria del monastero di Santa Patrizia, accanto all’altra zia Benedettina, vidi entrare frettolosi ed anelanti due chierici, che gridarono:

«Ma, signore, venite presto a San Gregorio Armeno! Il pontificale è finito: non si attende che la monaca».

Una pugnalata al cuore non ha effetto diverso di quello che provai da tale chiamata. Un tremito generale s’impossessò delle mie membra, e divenni livida al par di cadavere.

La prima ad alzarsi fu la duchessa Corigliano. Compressi la mano sul cuore, mi levai a stento, e baciai quella vecchia zia, che mi disse lagrimando:

«È questo l’ultimo nostro bacio... Addio, figlia mia! ci rivedremo in cielo».

La principessa, venutami più d’appresso, mi guardò in volto.

«Fermatevi, duchessa, » disse alla Corigliano: «non vedete che la monachella si sviene?»

Infatti, appuntellata alla spalliera della seggiola, io vacillava, pronta a cadere.

Mi posero a sedere, e chiesero un bicchier d’acqua, dal che refrigerata un poco, ripresi lena, e mi rialzai.

«Scommetto, che non siete contenta di farvi monaca» mi disse per via la principessa.

«Al contrario» risposi, inghiottendo un sospiro traditore; «ne sono contentissima».

Avanzava frattanto la carrozza, ed avanzando entrava nel quartiere di San Lorenzo. Approssimatici alla città dolente, misi il capo allo sportello, cercando con lacerante curiosità le persiane delle finestre, le cancellate di legno, le inferriate, e gli altri ripari del monastero. Alla vista del sepolcro che stava lì per ingoiarmi, non so come, spinta da un istintivo impulso, non mi sia rovesciata dalla carrozza in mezzo alla strada. Mi risostenne l’intima autorità dell’amor proprio.

Quanto mi avvicinava a San Gregorio, tanto più distinto facevasi il suono delle campane. Ogni tòcco era suono funereo nell’animo mio.

All’angolo della strada, il confuso cicalar della moltitudine, accorsa da ogni parte, lo sparo dei mortaletti, le acclamazioni delle donnicciuole a’ balconi, e la banda degli Svizzeri finirono di impietrirmi. Io ho provate le estreme sensazioni del suppliziato!

Al portone della chiesa fui ricevuta da una processione di preti colla croce in alto. Due altre dame si posero al mio fianco, la principessa di Montemiletto e la marchesa Messanella. Il prete colla croce in mano camminava innanzi, gli altri formavano due ale.

La chiesa era parata con eleganza, illuminata con profusione, e divisa nel mezzo da uno steccato bianco e rosso, alla cui dritta stanziavano le signore, che erano state invitate e ricevute da mia madre, ed a sinistra stavano i cavalieri, ricevuti da mio cugino il principe Forino.

Di quella assemblea numerosa, delle variopinte decorazioni, di quell’oceano di luce altro non vidi che una massa informe e confusa. Giunta che fui al mezzo del tempio, mi fecero inginocchiare, e mi presentarono una piccola croce d’argento, e una candela accesa. Dovetti poggiare la prima sul petto, tenendola colla sinistra, e portar nella destra la fiaccola.

Nel passare vicino alle signore, la mia sorellina Giulietta stese le mani per afferrarmi dal velo, e gridò tanto alto da farsi sentire da tutti:

«Non voglio, no, non voglio che tu vada a chiuderti!».

Quella voce argentina attirò l’attenzione d’ogni persona. Era la voce dell’innocenza che gridava alla barbarie.

Mi volsi a quella parte: una signora imbavagliava la bocca della fanciulla col fazzoletto. Mi corsero le lagrime agli occhi, asciutti fino a quel punto.

Arrivai all’altar maggiore. Il vicario, che funzionava, essendo infermo il cardinale, stava seduto dal lato dell’Epistola. Ivi, io e le dame rimanemmo per pochi minuti genuflesse; poi mi menarono al vicario, e mi posero ginocchione ai suoi piedi.

Un prete, dalla cotta superbamente ricamata, presentògli un piccolo bacile d’argento con forbicette, con le quali mi recise una piccola ciocca di capelli.

Mi rialzai allora; e fiancheggiata dallo stesso corteggio, preceduta dalla banda che suonava, uscìi nuovamente della chiesa. Il tratto di strada, che da questa mena alla porteria, fu fatto da tutti a piedi, in mezzo ad una fittissima calca di curiosi.

Appena posi il piede sulla soglia della clausura, proruppi in uno di quei pianti sfrenati, che non può forza umana contenere: e le monache a chiuder tosto le porte, ad internarmi sollecitamente, a dirmi in coro:

«Non piangere, per carità! Altrimenti diranno i secolari, che non ci monachiamo per vocazione, ma per forza... Zitto, zitto, per carità!».

Scesi al comunichino. Il vicario, i canonici, i preti e gl’invitati erano tutti affollati presso al cancello. Ivi, condotta in un angolo, fui per mano delle monache spogliata via via degli abiti di gala, del velo, della ghirlanda, dei guanti e perfino dei calzarini.

Quando in vesta di lana nera, colla chioma scarmigliata, cogli occhi tumefatti dal pianto m’accostai al portellino del comunichino, intesi tra la folla alcuni gemiti, provocati dalla commozione. Chi mi deplorava? Lo ignoro.

Il vicario benedisse lo scapolare, ed offertomelo di propria mano, me l’indossai. Quindi mi prosternai dinanzi alla badessa. M’avevano spogliata dell’abito secolare: dovevano pur togliermi la chioma. Le monache strinsero in una sola treccia i miei lunghi capelli, e la badessa impugnò delle grandi forbici per reciderla, mentre un silenzio profondo regnava intorno.

Una voce potente, uscita da mezzo i convitati, gridò:

«Barbara, non tagliare i capelli a quella ragazza!».

Tutti si volsero: bisbigliarono di un pazzo. Era un membro del Parlamento inglese.

I preti imposero silenzio, e le monache, le quali in altre simili funzioni avevano veduto de’ protestanti, dissero alla superiora, ch’era rimasta colla mano sospesa, stringendo le forbici:

«Tagliate! È un eretico».

La chioma cadde, e presi il velo.

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