venerdì 15 maggio 2009

Le Memorie di Enrichetta Caracciolo: VIII. Scene e costumi.

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VIII
Scene e costumi

De’ monasteri benedettini di Napoli San Gregorio Armeno era quello che al tempo del mio racconto riuniva il maggior numero di monache professe. Ve ne trovai infatti cinquantotto: poche d’avanzata età, la più parte giovani, od almeno non vecchie, e tutte, siccome dissi, appartenenti alle più cospicue, se non sempre alle più ricche, famiglie dell’ex capitale.

Ebbi però l’occasione d’osservare, fin dal primo giorno del mio ingresso in convento, che le condizioni intellettuali e morali di quelle suore non rispondevano punto all’elevatezza de’ loro natali. Dall’egoismo di snaturati genitori e di fratelli destinate sin dalle fasce a seppellire e mente e cuore e bellezza nella solitudine, ad immolare, meno alla religione che all’avidità de’ congiunti, ogni loro affetto, perfino il filiale, a fare solenne ed irrevocabile rinunzia de’ doveri e de’ diritti che vincolano l’individuo alla famiglia, alla nazione, all’umanità, senza riguardo alcuno all’indole socievole, all’ignea tempra, alla mobilità del loro carattere ereditario; allevate per tale motivo nell’allontanamento da ogni dottrina, atta a dilatare la sfera delle loro idee, a disciplinare e fecondare i loro sentimenti, ad ingentilirne i costumi; non d’altra cosa al mondo informate, che di leggende, di miracoli, di visioni, di ascetiche fantasmagorie, attinte nella lettura degli scarsi libri agiografici, che loro ha concesso l’indice della famiglia, né, sia dentro o fuori di casa, trovatesi mai al contatto d’altra persona che non fosse uno stretto consanguineo od il proprio confessore; le monache del più inclito di tutti gli ordini, dico le Benedettine, sono altrettanto spoglie de’ pregi che distinguono la donna bennata, quanto pure destitute di quelli che in altre più civili società rendono tuttavia rispettabile la religiosa. Lo storico od il filosofo che nelle pallide pagine de’ Cronisti o nella fantasia depravata del Seicento non rinvenisse materiali, capaci di ricostruire al naturale quell’èra reproba che inaugura e chiude in Italia la dominazione straniera, entri, se il potrà, in un convento di donne! Vivi e palpitanti vi troverà tuttora, a dispetto della riforma tridentina, i costumi del secolo de’ Borgia, de’ Medici, de’ Farnesi, le tradizioni delle corti di Colonna e di Pietro di Toledo, i pregiudizi del feudalismo normanno ed aragonese, la crassa ignoranza e le superstizioni del volgo all’epoca degli auto-da-fé. Quale museo di antichità può, al pari del monastero di femmine napoletano, presentare tanto piene di vita e di movimento le reliquie del Medio Evo, curiosamente incassate in lavori d’intaglio dell’epoca di Carlo V, le dipinture della Divina Commedia e del Decamerone, ristaurate dal pennello di Calderòn de la Barca, e di Cervantes? Il funebre manto della clausura salvò incolume questa necropoli, come lo strato lapillare del Vesuvio conservò i papiri d’Ercolano, e le mummie di Pompeia.

Confermati pertanto dall’esperienza mia sono i giudizi dell’anonimo, che nella prefazione ad una cronaca scandalosa d’apocrifa memoria (Cronaca del Convento di Sant’Arcangelo a Bajano), tracciò le vicende storiche del convento di donne napoletano. Né sono i costumi di Napoli tanto riformati, che inapplicabili al presente tornino le considerazioni dell’autore su’ tempi andati.

«Alla dominazione normanna» scriv’egli «s’introdussero le leggi claustrali in tutto il loro vigore. I voti che pronunziavano alcune donne pie erano temporanei, e rinnovellavansi ogni anno coll’arbitrio di poter scegliere uno stato, che avesse potuto meglio convenire a loro. Queste donne dunque vivevano in una specie di franchigia religiosa che riuniva, come le canonichesse di Alemagna, i vantaggi della società alle convenienze di una vita pura ed edificante; portavano il titolo di oblate (presentate), vivevano in una certa distanza dal mondo, e potevano rientrarvi quante volte le ne veniva il desiderio. La privazione di ogni contatto colla società non irritava i loro sensi, e la loro immaginazione, lungi dallo smarrirsi all’idee della solitudine, faceva loro guardare con piacere la possibilità di ricomparire nel mondo. L’interno di questo monastero era per tali ragioni un soggiorno di decenza e di ordine, ove regnava quella dolcezza piacevole che accompagna il cristianesimo, che è un tipo poetico della morale ed una qualità inapprezzabile presso le donne. Alla mancanza di un sentimento più tenero, la confidenza e l’amicizia regnava fra queste dame, delle quali la virtù si sarebbe opposta all’idea d’ogni mondana passione.

«La persona che voleasi stabilire in questo ritiro dovea mantenersi a sue spese fino al momento nel quale, manifestando piacerle tal genere di vita, si risolveva a farsi scrivere fra le religiose a mantenimento del luogo, ed allora riceveva tutto ciò che è necessario alla vita. La direzione generale era affidata alla più savia delle dame del convento, ed il re confermava questa libera scelta che gli garantiva il suo grande limosiniere.

«Durante il regno degli Angioini queste dame furono il modello di tutte le virtù riunite al talento, frutto d’un’educazjone distinta; ma sotto il regno di Ferdinando il Cattolico e di Carlo V, allorché tutti i privilegi furono accordati all’ipocrisia ed ai segni esterni della pietà, si osservò un gran cangiamento tra i rapporti che ebbero le religiose colle genti del mondo. I disordini aumentarono a misura che i torbidi della guerra, e i vizi del potere delegato gettarono il paese nell’anarchia degli oligarchi. Furono i potenti, che rivestiti d’insegne, e splendenti pel fulgor delle corti, potettero sedurre delle dame pie, appartenenti alle prime famiglie; indi cedettero il posto agli uffiziali dell’esercito, e lo splendor delle armi la vinse sullo splendore che ricordava i galanti della corte. Per tal modo le seduzioni dell’amore, ed in seguito la corruzione, s’impadronirono dello spirito d’una folla di giovani beltà, delle quali l’anima pura e senza macchia non era stata fino allora accessibile che all’amicizia ed a tutti i sentimenti che ispira la virtù...

«Allora l’autorità, non poggiando su basi costituite, ma sopra privilegi ed esenzioni della nobiltà, del clero e della corte di Roma, piegavasi a norma delle circostanze, e vedeva, impotenti a soccorrerla, un numero dei suoi sudditi morire sotto i suoi occhi dalla reazione di tanti poteri, o eludere il principale, quello cioè che veniva dal trono. Le corti auliche giudicavano gl’individui appartenenti alla Corte ed all’esercito; i membri del clero avevano il loro foro, che appellava alla Corte di Roma, ed i monaci ne dipendevano direttamente. L’arcivescovo di Napoli ed il nunzio avevano le loro prigioni, dove carceravano ogni uomo o donna che dipendesse dalla Chiesa, e vi nascondevano spesso coloro che volevano involare al potere sovrano. Ogni chiesa, convento, palazzo di feudatario godeva il dritto dell’asilo, ed aveva ai suoi soldi i più celebri scellerati. Una corrispondenza tra Napoli, Roma e la Sicilia, stabilita con barche che valicavano il Tevere, portava innanzi tutte le operazioni del governo, effettuava tutti gl’intrighi; e forse provar si potrebbe che, senza l’intervento della cancelleria romana, il memorando Vespro Siciliano non avrebbe avuto luogo. Quando queste tenebrose operazioni non erano riuscite a far evadere un colpevole, si vide cento volte giungere una bolla che togliendolo dalle mani della giustizia, lo dichiarava iscritto al clero. Cento volte un padre inumano, capriccioso, avaro, assistito dall’autorità del nunzio o del vescovo, gettò in un convento la figlia, della quale la situazione gli dava imbarazzo, o la moglie, che egli sospettava invaghita di un altro. Quando l’onore d’una nobile donzella era compromesso con pubblicità e senza che il suo complice fosse stato manifestato dai suoi parenti, ella e l’uomo sul quale cadevano i sospetti erano assassinati e sepolti, od imprigionati segretamente; od infine, quando volevasi far prova di dolcezza e di moderazione, la giovane spariva dal mondo, e l’uomo, evirato, andava a pronunziare i suoi voti in un convento».

Era allora la condizione della donna forse peggiore che non è in Turchia oggidì. Bastava un’ombra di sospetto, una calunniosa denunzia, un’allucinazione generata dalla gelosia; bastava la falsa deposizione d’un amante rigettato, perché il consiglio di famiglia, tosto riunito nello stesso mistero in cui l’Inquisizione di Spagna soleva involgere i suoi esami, fulminasse contro l’incolpata la sentenza, che sola, secondo i pregiudizi dell’epoca, poteva reintegrare presso la pubblica riputazione l’onore compromesso del blasone. Né, per lavare la macchia, ben sovente immaginaria, conoscevasi altro mezzo che il sangue. A tenore di quel barbaro codice, la donna, se accasata, era pugnalata o strangolata nel proprio letto; se nubile era condannata alla perpetua morte civile della reclusione monastica, oppure tolta di vita col veleno. Né l’intera penisola poteva offrire qualche scampo a colui, sul capo del quale caduti fossero i sospetti dell’inquisizione domestica. La mano del sicario, armata di stile traditore, l’avrebbe seguito in Roma, in Firenze, in Milano, perfino sul più libero suolo di Venezia: l’avrebbe ritrovato nel fondo del più remoto convento, l’avrebbe trafitto a’ piedi dell’altare medesimo; ed era tanto imperiosa questa sete di arbitraria reintegrazione, la era siffattamente incarnata ne’ pregiudizi del secolo, che più d’un cardinale pose il pugnale nella mano dell’assassino, più d’un pontefice diè libero sfogo alle vendette de’ suoi nipoti.

In prova di simili orrori, potrei estrarre dalle cronache inedite del passato innumerevoli esempi, non indegni di figurare un dì fra le pagine di colui che sarà per vergare i Misteri dell’italia fatta serva. Mi limiterò ad un solo caso, come quello che si riferisce particolarmente alla memoria della ben nota Fulvia Caracciolo, autrice della cronaca summenzionata, e agli annali lugubri di San Gregorio Armeno. Lo riproduco testualmente, quale trovasi nella cronaca inedita, che porta per titolo: Historie particolari di alcuni successi tragici, avvenuti in Napoli ed altrove a’ Napoletani.

«Giovan Battista Lomellino, nobile genovese, ritrovavasi in Napoli, facendo il mercante, come costumasi da quella nazione: uomo molto ricco e galante, il quale innamoratosi di una donzella della famiglia Berardini, figlia di Fulvia Caracciolo, la richiese per moglie. Ma, non ostante l’impegno del viceré, gli fu dalli parenti negata; per il che si risolse pigliarsela, senza consenso delli suoi parenti. Allora, con grossi regali di gioie alla giovine (fatti per mezzo delli familiari con doni pur corrotti), l’indussero a fare una procura ad un suo amico; ma il notaro, subito fatta la procura, avvisò li parenti della giovine, che si chiamava Diana, i quali esaminando li creati, trovarono che il Lomellino una sera s’era introdotto in casa come sposo della fanciulla. Del che maggiormente infieriti, trovarono alcuni assassini, i quali, la domenica delli nove d’agosto 1578, postisi in una carrozza, passarono per la casa del Lomellino e lo chiamarono per nome; e quello, essendosi affacciato alla finestra, uno di loro tirògli un’archibugiata, che, colpitolo in testa, senza poter dire una parola, cadde morto. Postisi di nuovo in carrozza, si posero a fuggire; ma, sopraggiunti alla corte, furono carcerati, e confessato il delitto, l’uccisore, alle quattro ore di notte dell’istessa sera, fu appiccato davanti la casa dell’infelice Lomellino, e Diana, posta nel monastero di San Ligorio (San Gregorio), si fe monaca».

Ma dimentico d’aver promesso fatti concreti, anzi che ragionamenti storici.

Torniamo dunque a’ fatti miei.

Quale è lo speciale connotato, il tratto caratteristico, che distingue il convento di donne dal convento di uomini?

È rimasto inosservato al mondo finora. Lo rivelerò io. È la confessione.

Nell’anno 1571 per ordine dell’arcivescovo Carafa fu imposto a tutti i monasteri di donne, soggetti alla sua giurisdizione, di scacciare i monaci dal confessionale, ed indi in poi non ricevere per confessori che preti secolari.

« Questo mutare» narra la cronaca di suora Fulvia «dispiacque a tutte, sì per essere quei padri di tanta edificazione, sì anco perché non ne persuadevamo che i preti secolari così di leggiero potessero aver saggio di quello che conviene alle regole claustrali».

Ebbe questa separazione per effetto, che nell’argomento della confessione non vi fu più conformità di parere e di sentimenti fra i monaci di diverso sesso.

Che se ufficio semplice e facile a praticarsi è presso i monaci questo sagramento, per le monache però non è così. L’argomento della confessione assorbe le giornaliere e notturne cure di queste, occupa i loro pensieri, fissa i loro sentimenti, fornisce alle loro ricreazioni alimento inesausto. Coll’andar del tempo la confessione è addivenuta per esse la condizione sine qua non della loro esistenza: scienza occulta, che s’impara nel silenzio del carcere, parte per propria esperienza, parte per mutuo insegnamento: specie di camorra, che ha i suoi adepti, i suoi taciti regolamenti, i suoi capi, il suo codice penale. Supponete un qualche concilio, che nei conventi donneschi sopprima il bene supremo del confessionale! La nazione potrà dispensarsi dal colpire per espressa legge l’avvenire del monachismo; tanto, almeno per le monache, i monasteri si scioglierebbero, a parer mio, per atto di spontanea disposizione, e ciò in un periodo di tempo non più lungo di qualche settimana.

Prima di entrare in San Gregorio Armeno, ricorrendo la festività del Natale, mia madre mi aveva dato per confessore quello della zia Lucrezia. Era egli un vecchio rustico e brontolone, ma nel fondo un buon prete. Abituata ad accostarmi riverente e sommessa al confessore, riguardava in lui non l’uomo, ma piuttosto il ministro della divinità. Egli veniva a confessarmi ogni lunedì.

Trovai i confessionali a modo di piccoli gabinetti, da ogni parte diligentemente riparati, e con entrovi uno sgabello per sedere comodamente.

Domandai perché le monache si confessassero sedute, contro l’universa consuetudine: mi venne detto, che non essendo possibile di rimanere due o tre ore in ginocchio, usavano le penitenti genuflettersi soltanto nel momento dell’assoluzione.

«Come!» esclamai maravigliata. «Vi occorrono due o tre ore per dire al confessore che non avete voluto né potuto commettere peccati in due o tre giorni di vita claustrale! Che mai dunque sarà della povera gente mondana, molto più di voi soggetta alla tentazione? Dovrebbero adunque gli agricoltori disertare i campi, gli operai chiuder la bottega e convertirla in confessionale, e spendervi una intera giornata ginocchioni?»

«Ben sappiamo» mi risposero, «essere usanza presso la gente mondana di non fare che una confessione di pochi minuti; ma noi, non solo esterniamo i nostri piccoli peccati (non essendovene de’ mortali nel monastero), ma vogliamo inoltre che il confessore, persona fidata e di nostra elezione, ci diriga in tutte le operazioni del vivere. A lui confidiamo i pensieri, gli affari, i progetti nostri, essendo egli l’unico amico, l’unico sfogo, l’unico intermediario fra il cielo, il mondo e il chiostro, che ad una monaca lecito sia di possedere. Smembrate dalla famiglia, noi ritroviamo in lui l’amore paterno, la materna tenerezza, l’affetto de’ fratelli e delle sorelle, mentre dal mondo separate, nell’intimità che cordialmente a lui ci congiunge rinveniamo la personificazione dell’universo, in compenso della nostra solitudine. Insomma, dopo Iddio, il confessore è per noi il tutto... Tu pur fra breve, massimamente se t’induci a lasciare quel vecchio e demente confessore che ti fu dato, per isceglierne un altro più giovane, più atto a dirigere il tuo spirito, tu pure passerai deliziosamente un paio d’ore nel confessionale».

«Qual trattenimento di cattivo gusto!» risposi io. «Preferirei un duetto di Rossini sul mio piano-forte!».

Ed infatti io deplorava la fatalità che mi toglieva fra le altre cose l’uso diletto della musica, e mi poneva nel caso di perdere per dissuetudine l’agilità delle dita sulla tastiera.

Una suora giovane, tarchiata, brunetta, dagli occhi vispi, dal riso pronto, tiratami in disparte:

«Spero» mi disse, «che di quanto abbiamo discorso, e saremo per discorrere in seguito, non ne vorrai far cenno alla badessa tua zia».

Venuto l’indomani il confessore, e fattolo partecipe delle pene che mi angosciavano, egli mi dichiarò che nel monastero faceva mestieri comunicarsi quasi tutti i giorni. Lo supplicai di volermi esentare da tale usanza, credendo di non potermi accostare al divino benefizio, senza far precedere la confessione.

Ebbi in risposta, che sul principio almeno dovessi comunicarmi due volte per ogni settimana: più tardi poi mi sarei conformata alla comune consuetudine.

Poiché scesi nel comunichino, la conversa di mia zia Lucrezia suonò il campanello per far venire il prete colla pissida. Era un uomo di 50 anni incirca, di forte corporatura, rubicondo in faccia, con un tipo di fisonomia altrettanto volgare quanto ributtante.

M’appressai al finestrino per ricevere l’ostia, chiusi naturalmente tenendo gli occhi.

Posta che mi fu sulla lingua la particola, e nell’atto stesso di ritirarmi addietro, sentii sulla guancia diritta l’impressione d’una mano che mi carezzava. Aprii gli occhi; il prete aveva già ritirate le dita. Credetti d’essermi ingannata, né ci pensai più.

Al giorno della seconda comunione, dimentica di quanto era avvenuto nella prima, io riceveva la particola ad occhi chiusi, secondo il precetto.

Questa volta sentii stringere leggermente il mento, e nel riaprire gli occhi, vidi il prete guardarmi fiso fiso, e colle labbra propense all’ilarità.

Non vi era più dubbio: la carezza della prima, la stretta della seconda volta non erano effetto del caso.

La donna, figlia d’Eva, è più dell’uomo punta dalla curiosità. Mi venne in mente di collocarmi in un sito appartato, donde potessi scorgere se il prete libertino soleva far lo stesso alle monache; lo feci, e rimasi convinta, che le sole vecchie andavano immuni da quella carezza; tutte le altre lo lasciavano fare a suo agio, anzi nel dipartirsi gli facevano la riverenza.

«È questo il rispetto» dissi fra me, «che i ministri e le spose del Signore hanno pel sacramento dell’Eucarestia? Lasciano dunque il mondo le educande, per venire a prendere in questa scuola siffatte lezioni di costumatezza e di castità!».

La sfera frattanto del mio isolamento ristringevasi di giorno in giorno. La mia perseveranza nel dichiarare di non volermi monacare irritava le religiose tutte. Esse, concordi in questo disegno, davano la colpa al mio confessore che, a loro dire, non sapeva persuadermi ad abbracciare la vita claustrale.

«No, non è buono per te quel confessore» mi andavano ripetendo; «e la prova patente della sua incapacità fassi vedere nella brevissima durata della sua operazione. Egli ascolta, e non parla, dunque, privo di spontanea attività, si contiene in uno stato di passiva udizione. Ti ha egli, per esempio, significata la diversità che passa fra la vita dei mondani, la cui maggior parte piomba nell’ombre eterne, e quella dei religiosi, che quasi tutti si salvano?».

Le monache non si davano pace: questa mi esortava di qua, quella mi catechizzava di là, tutte dal più barbaro vernacolo e dalla più zotica superstizione tiravano argomenti, onde esorcizzare lo spirito maligno che m’ispirava avversione insormontabile per la loro società. Una fra le altre, chiamata Maddalena, la più fanatica, veniva ogni sera nella stanza della zia Lucrezia, coll’intento di convertirmi a tutto costo. Poiché vide anche questa tornati infruttuosi gli assalti sofistici della sua logica, «Vuoi farmi un piacere?» mi disse.

«Parla» risposi.

«Attendo domani il mio confessore; quel canonico ha la dottrina di san Tommaso d’Aquino e le virtù di san Francesco Caracciolo tuo progenitore. Una conferenza con lui ti strapperebbe certo dall’ostinazione che t’abbrutisce».

«Ma, santo Dio! che cosa dovrò dirgli?»

«Gli esporrai le ragioni per cui abborrisci lo stato monastico, e udrai le sue risposte».

Conoscendo ch’io non aveva intenzione di arrendermi, «Sai tu» soggiunse, «che Iddio, avendoti allontanata dal mondo per farti entrare in questo santo rifugio, ti ha data una prova di bontà, affinché molte altre donzelle tue pari ne possano profittare? Egli un giorno ti chiederà conto del disprezzo mostrato all’immenso suo benefizio. D’altronde, non è egli meglio purgare la coscienza degli scrupoli, consigliandoti coi servi di Dio? Almeno, compito quest’ultimo dovere, la Provvidenza non ti biasimerà d’incuria, se persisterai nel tuo proponimento».

Cotesti ragionamenti reiterati tutte le sere con crescente incalzare di loquacità, l’atmosfera oppressiva del chiostro, la mia giovanile età, l’ignoranza della pretesca e della monacale impostura, infine l’educazione, che mi rendeva pieghevole ai superiori e cortese con tutti, mi fecero condiscendere alle sue premure.

La mattina seguente Maddalena mi conduceva gongolante di gioia dal suo dotto reverendo. L’esultanza e la sollecitudine di quella monaca mi parvero un indizio rassicurante. «Se nelle sue relazioni col prete» mi dissi, «vi fosse per avventura alcun che d’equivoco, m’avrebbe ella fatta di sì buon grado compartecipe della sua felicità?»

«Non sei curiosa di vedere l’effetto d’un’efficace confessione?» mi domandò essa, qualche momento prima d’introdurmi nel gabinetto.

«Curiosa in superlativo grado!» risposi sorridendo.

Ed infatti la situazione mia somigliava a quella d’una sepolta viva che, ridesta dal letargo, va brancolando intorno alle tenebrose catacombe, ove si vede chiusa, in cerca d’un’eventuale uscita.

Il canonico era un uomo di 40 anni, e aveva un aspetto pieno d’espressiva mobilità.

Se non era un gesuita, nessuno più di lui sarebbe stato degno di divenirlo. Dopo molti complimenti e riverenze, mi domandò flebilmente il nome, l’età, la condizione, e simili altri particolari.

Poi, piegando l’una gamba sull’altra e stropicciandosi le mani disse:

«Suppongo, signorina, che abbiate deliberato di farvi monaca».

«No, reverendo».

«E perché?»

«Perché la clausura m’opprimerebbe soverchiamente». «Coll’andar del tempo vi abituerete a questa dolce prigionia per modo da non potervene più separare. Non siete dunque entrata di vostro piacere nel convento?»

«No; forzata da mia madre».

«Ah, forzata dalla mamma! (breve pausa, durante la quale il prete sembrò immerso in profonda meditazione). Ditemi un po’, signorina, avete mai fatto all’amore? »

«Due volte».

«Qual era il vostro fine nell’amoreggiare?»

«Sposare l’oggetto amato».

«Questo, e null’altro? Vogliate aprirmi senza riserva il vostro cuore».

«Non ho avuto per mira che il solo matrimonio».

«Avete inviate o ricevute lettere da’ vostri amanti? »

«Mai» (mi ricordai del biglietto di Domenico).

«Avete avuto ambasciate verbali? »

«Neppure » (oziose interrogazioni!).

« Come dunque hanno avuto termine i vostri amori? »

«Sono stata abbandonata dagli amanti».

«E la mamma?»

«La mamma s’indispettì nel vedermi serbar la fede al secondo amante».

«Ecco, figlia mia» esclamò allora, «ecco la differenza che passa fra lo sposo mondano e lo Sposo celeste! Quelli vi hanno abbandonata, benché li amaste: questi vi ha seguìta, e fedelmente vi seguita, mentre di lui non vi cale, e tuttavia persistete a respingerlo. I primi hanno amareggiato il calice puro della vostra giovinezza: il secondo vuoi colmarvi d’ineffabili e sempiterne voluttà. Egli vi apre la sua casa, v’introduce in questa sua famiglia, vi schiude le braccia con tenerezza, ed ansiosamente vi aspetta, per farvi dimenticare nei sublimi conforti dell’amor suo, i dissapori di che gli uomini vi abbeverarono».

Continuò per lunga pezza su questa solfa mediocramente edificante.

Alfine, io, presa alla mia volta la parola: «È o non è vero» dissi, «che l’uomo è stato creato per l’umanità? Se, come dite, la famiglia di Cristo, fosse questa ristretta comunità, perché dunque il figlio di Dio sarebbesi fatto crocifiggere a salvamento dell’intero genere umano? Dice la santa Scrittura che, per compiacersi nella solitudine, fa d’uopo essere o dio o bruto: Quis solitudinem delectatur, aut Deus, aut fera est. Ora, reverendo mio, io non sono né all’altezza della Divinità, né nella condizione delle belve: amo il mondo, e mi compiaccio nella società dei miei simili. Né credo, d’altronde, che voi stesso abbiate in orrore l’umano consorzio; poiché, se così fosse, non sareste pur voi monaco confesso almeno, se non anacoreta della Tebaide? »

«A questi quesiti» disse il canonico, alzandosi e pigliando il cappello, «darò risposta alla prossima nostra conferenza. Mi promettete di ritornare un’altra volta da me?».

Dovetti acconsentire. Era d’altronde vaga di sperimentare la famigerata persuasiva di quell’alto ingegno.

Di lì a due giorni mi richiamò a sé per annunziarmi avergli il Crocifisso ispirato nelle sue preci, ch’egli stesso, e non altri, dovea confessarmi. M’intimava pertanto d’indirizzare al mio vecchio confessore una lettera nella quale, ringraziandolo della carità (nel glossario monastico far la carità significa confessare), gli avessi dichiarato di essermene provveduta d’un altro confessore.

Mostrai qualche renitenza a tale intimazione; ma il canonico, dicendo la virtù più cara a Dio essere l’ubbidienza al Crocifisso, mi vietò l’uscita, prima d’avergli promesso l’invio della lettera propostami, non sì tosto salita sulla mia stanza. La lettera fu scritta, benché con mio dolore.

Ora, se il cambiamento di confessore spiacque a me, cagione di non minor dispetto fu a suor Maddalena, la quale, se sembrava di far spiccare la fecondia portentosa del suo confessore, era peraltro ben lungi dall’immaginare che l’atto della mia conversione avrebbe richiesto più di una conferenza. La incontrai, e nel guardarmi divenne livida in volto, inurbanamente mi voltò le spalle, e, borbottando non so che, andossene via.

«E curiosa davvero Maddalena!» venne a dirmi un’altra monaca, che pur dicevasi amica di costei. «Non è essa stessa che ti ha condotta forzatamente dal suo confessore? Eppure adesso piange e si dispera per gelosia».

«Gelosia!» esclamai io, sbruffando dalle risa... «gelosa di che?»

«Il canonico dal canto suo mostra meno affetto per lei che per te, e tu del resto, congedato il primo confessore, divieni la penitente del canonico».

Ne rimasi stupefatta. Non potendo più richiamare il vecchio prete, dopo la lettera speditagli, ne scrissi un’altra al canonico, ove gli diceva che, non avendo intenzione di procurarmi nemiche nel chiostro, avrei cercato d’un altro confessore.

Un’ora dopo io udiva sei tòcchi alla campana della porteria: era la mia chiamata. Trovai il canonico nel parlatorio.

«Mi avete mandato una lettera di licenziamento?» disse ridendo nel vedermi.

«Sì» risposi; «non sarò per certo motivo di discordia nel chiostro durante il breve tempo che vi soggiornerò; e come non sono scortese con nessuno, così non darò ad altri il diritto di usarmi degli sgarbi».

«Per me, tanto» soggiunse egli, sempre ridendo, «non farò conto alcuno della vostra lettera, anzi per affrancarvi da ogni soggetto di molestia, annunzierò oggi stesso a Maddalena che non la voglio confessar più; per tal modo essa non avrà più motivo di esplorare se sento o non sento affetto per voi. Ho il compito sacrosanto di condurre all’ovile la pecorella smarrita da Dio consegnatami, e non mi è lecito abbandonarvi».

«Non so» risposi con sostenutezza, «come la gelosia possa insinuarsi nel sacramento della confessione, né a me tocca di esaminare la causa di sì inqualificabile associamento. Devo però dirvi che, se lascerete Maddalena, mi susciterete una persecuzione più forte. Fatemi questo favore: tenete lei, e lasciate me! Da questo punto vi dichiaro che al confessionale non mi ritroverete più».

«Allora» disse, deponendo l’ilarità, ed assumendo un tuono contenuto, «allora impiegherò un altro spediente».

Ciò detto, se ne partì, lasciandomi nel dubbio di quello che proponevasi di fare.

Avendo frattanto deliberato di non cedere sopra questo argomento, pregai mia zia la badessa di trovarmi un altro confessore, badando ch’egli fosse un vecchio, e che non avesse altra penitente nel monastero. Ella ne prese l’incarico, tanto più ch’era pur essa lei dispiacente di vedermi involontariamente caduta in quell’impiccio.

Verso le tre intesi nel corridoio un gran fracasso. Mi affacciai dalla loggia, e vidi Maddalena nel mezzo d’un crocchio di monache e di converse, nell’atto di giungere e presentare alle sue compagne un foglio piegato in forma di lettera.

Parlavano, o per meglio dire strillavano tutte insieme, con gesticolazioni esagerate, che ricordavano la scena delle streghe di Macbeth.

Un affare di confessore per le monache è affar di stato, è un casus belli.

Compresi non poter essere altro che una lettera del canonico, e dal fondo del cuore maledissi il momento che m’avevano portata in quel santo pandemonio.

Il fracasso andava crescendo; era in piedi tutta quanta la comunità: dalle confuse strida della rivolta non distinguevasi che una sola parola, mille volte ripetuta, la parola canonico. Intanto la vecchia badessa appoggiata ad un’educanda accorreva al tafferuglio, e cercava di calmar Maddalena, promettendo che sua nipote non si sarebbe più confessata dal canonico, e ch’essa stessa m’avrebbe trovato un altro confessore.

«Me ne date la vostra parola?» gridò Maddalena da spiritata, mentre settanta bocche le stavano chiuse d’intorno in atto di silenziosa aspettativa.

«Tenetemi per impegnata» soggiunse la badessa.

«Brava! brava!» esclamarono in coro le monache.

«Era insopportabile, era troppo doloroso vederlo chiuso nel confessionale con un’altra».

E congratulandosi con Maddalena della rivendicata proprietà, le andavano dicendo: «Giustizia è fatta! stattene ormai tranquilla! ».

Da quella scena singolare, che non sarà mai cancellata dalla mia memoria, incominciai a convincermi che la premura delle penitenti pei confessori e quella dei confessori per le penitenti aveva la sua ragione d’essere in un certo tale sentimento, non troppo conforme i1 precetto evangelico, ama il tuo prossimo come te stesso.

Ma non doveva la scena terminare lì. Stava scritto che l’argomento della mia confessione trovasse la soluzione presso eminenti autorità della Chiesa apostolica romana.

Il mattino seguente fui chiamata al parlatorio: indovinate chi cerava di me!

Monsignor vicario – che voleva da me?

Voleva dirmi che il canonico era stato da lui: avevagli raccontato il fatto successo fra Maddalena e me; ed egli, nella sua qualità di capo della Chiesa napoletana, aveva deliberato dovere rimanere a me, e non a Maddalena, la contesa confessione.

A completare la commedia, non ci mancava che l’autorità del papa.

Non valsero né le mie proteste né il mio pianto. La zia mi sgridò, affermando che al vicario bisognava ubbidire senza replica.

Salii piangendo nella mia stanza, ove scrissi una lunga lettera a mia madre, raccontandole tutto e rammentandole che, prossimo essendo a spirare il secondo mese, io desiderava di lasciare il convento al più presto possibile. Troppo lungo sarebbe il racconto delle mie sofferenze, per causa di questa ridicola gelosia. Ebbe termine soltanto la persecuzione, allorché Maddalena trovò un altro confessore, e dimenticò il primo.

Avendo intitolato questo capitolo “Scene e costumi”, riunirò in esso tutto ciò che relativamente alle monache ed ai preti ho io stessa veduto nei quattro monasteri da me abitati, o che mi giunse all’orecchio di altri chiostri napoletani; come pure farò laddove discorrerò de’ tre voti d’umiltà, di castità e di povertà delle monache. Seguirò questo metodo d’esposizione, per non aver a ritornare più volte sullo stesso argomento, troncando il racconto.

La frenetica passione delle monache pei preti e pei monaci supera ogni credere. Ciò che specialmente le rende affezionate al loro carcere si è l’illimitata libertà che godono di vedere e di scrivere alle persone amate. Questa libertà le localizza, le incorpora, le identifica al chiostro sì fortemente che son infelici allorché per causa di grave malattia, o prima di prendere il velo, debbono passare qualche mese in seno alla loro famiglia, accanto del padre, della madre, dei fratelli, non essendo presumibile che questi parenti permettano ad una giovinetta di passare più ore al giorno in misteriosi colloqui con un prete od un monaco, e di mantenere seco lui continua corrispondenza.

Havvi delle Eloise che più ore spendono nel confessionale in soave trattenimento col loro Abelardo in sottana. Peccato che non capiscano un iota di latino!

Altre, avendolo vecchio, hanno di soprassello un direttore spirituale con cui si trattengono lungo tempo da solo a sola nel parlatorio. Quando questo non basta, trovano il mezzo d’una malattia simulata, per averselo più ore da solo nella propria stanza.

V’ha delle monache che, senza l’intervento del confessore, non ardiscono fare neppure la lista del bucato. Una di queste penitenti vedeva il suo tre volte al giorno; la mattina le portava le pietanze pel pranzo, più tardi, venendo egli a dir messa in chiesa, la penitente lo serviva di biscottini e di caffè, e il dopo pranzo poi ritrattenevasi con lui fino ad ora tarda, per fare (diceva essa) il conto di quanto aveva speso la mattina. Non contenti, del resto, di tante conferenze, si scriveano due volte negl’intervalli delle visite.

Un’altra monaca aveva amato un prete fin dal tempo che questi serviva in chiesa da chierico. Pervenuto al sacerdozio, fu fatto sacrestano; ma da’ suoi compagni denunziata la tresca che da diversi anni manteneva colla monaca, gli fu dai superiori proibito finanche di passare per la via dove il monastero era posto. La monaca ebbe la romanzesca virtù di restargli fedele per sedici anni, nel corso dei quali si scrissero ogni giorno, si scambiarono regali, e di tratto in tratto si videro di soppiatto al parlatorio. Cambiato finalmente il personale dei superiori, ottenne la monaca, benché ormai giunta all’età matura, di averselo per confessore. Allora, riconoscente alla Santa sua protettrice della grazia ricevuta, le fece dono di numerose candele e di fiori, dispensò confetti a tutta la comunità, siccome in occasione di sposalizio, grandì le felicitazioni delle compagne, non ricusando anche qualche madrigaletto congratulatorio, e finalmente costruì a proprie spese un confessionale distinto, onde aversi le pratiche spirituali libere a tutte le ore della giornata.

Un personaggio, altamente collocato, fece un mattino chiamare la badessa del monastero, e consegnolle una lettera, da lui stesso trovata per la via. Quel foglio, mandato da una delle spose di Cristo al suo prete, era stato smarrito dalla domestica. Le espressioni materiali che in esso leggevansi avevano scandalizzata la coscienza del gentiluomo. Una cortigiana avrebbe fatto uso di più modeste frasi.

Un giovedì santo, a notte avanzata, trovandomi nel coro, vidi svolazzare, girando per aria, un foglio, che andò a cadere ai piedi del santo sepolcro: era il biglietto che un’educanda del luogo indirizzava al chierico.

Una giovine novizia, non avendo di che fare le spese della professione, pensò di ricorrere alla carità d’un confessore vecchio, ma ricchissimo, coll’intenzione di fargli delle moine, sino a che le avesse fornito il denaro occorrente, ma colla riserva però di surrogargliene poscia un giovine, con cui già trovavasi in recondita intrinsechezza. Il vecchio era di cuor tenero, ma circospetto per propria esperienza; le presentò molti regaletti, ma fu restìo a somministrarle il denaro richiesto, essendosi avveduto ch’essa confabulava nel parlatorio con un rivale più giovine di lui. La novizia, indispettita, congedò allora lo spilorcio vecchio, e si prese per confessore il prediletto; perloché, montato in furia e consumato da gelosia il ripudiato, appostossi presso la porta della chiesa il primo giorno che andò il rivale a confessare la sua penitente:

«Prosit» vedendolo, gli disse col fiele in bocca.

«Vobis» rispose l’altro sogghignando.

Di là a poco il vecchio morì di crepacuore, ed il giovine, perché povero, fu supplantato da un altro confessore, di meno fresca età, ma fratello d’un ricco funzionario.

Essendo inferma una monaca, il prete la confessò nella cella. Indi a non molto l’ammalata si trovò in uno stato interessante, ragion per cui il medico, dichiarata idropica, la fece uscire dal monastero.

Una giovanetta educanda scendeva tutte le notti al luogo delle sepolture, ove da un finestrino, che comunicava colla sagrestia, entrava in colloquio con un pretino della chiesa. Consumata dall’amorosa impazienza, non era in quelle escursioni impedita né dal cattivo tempo né dal timore d’essere scoperta. Udì una volta un forte strepito vicino a sé: nel fitto buio che la circondava credette scorgere un vampiro nell’atto di aggraticciarsi ai suoi piedi. Erano i topi. Ne fu talmente percossa di spavento, che di là a pochi mesi morì di consunzione.

I confessori di comunità sono scelti dai superiori per un triennio, ad uso di quelle monache e di quelle converse che non ne hanno uno particolare, per essere pervenute ad un’età disadatta agli intrighi amorosi. Ora, un confessore di comunità aveva prima della sua nomina una penitente giovane. Ogni volta che veniva per assistere una moribonda, e quindi pernottava nel monastero, la giovane monaca, scavalcando le logge che separavano la sua dalla stanza del prete, si recava presso il maestro e direttore dell’anima sua.

Un’altra fu assalita dal tifo; durante il delirio, altro non fece che inviar baci al confessore, assiso accanto alletto. Egli, coperto di rossore, per la presenza di persone estranee, portava innanzi agli occhi della sua inferma un Crocifisso, lamentevolmente esclamando:

«Poveretta, bacia il suo sposo!».

Sotto vincolo di segretezza mi confidò un’educanda tanto bella di forme e candida di costumi, quanto nobilissima di prosapia, d’aver avuto nel confessionale e per mano del suo confessore una lettura (come diceva) interessantissima, perché relativa allo stato monastico. Spiegai il desiderio di sapere il titolo, ed ella, per farmi vedere lo stesso libro, anticipò la precauzione di mettere all’uscio il chiavistello. Era la Monaca di Didérot, libro, come tutti sanno, pieno di disgustose laidezze, e però nelle mani di un’innocente giovinetta più che libro al mondo perniciosissimo. Dalla conversazione dell’educanda avendo raccapezzato di che in quello scritto trattavasi, le suggerii d’interromperne le lettura, e restituire immantinente lo sconcio prestito. Ma qual fu la mia sorpresa nell’udire dalla tenera zittella non esser essa nuova in letture di simile natura! Per favore del confessore medesimo aveva anteriormente divorato, e per ben quattro volte, un altro libro scandaloso, la Cronaca del monastero di Sant’Arcangelo a Bajano: libro allora proibito dalla polizia borbonica.

Io stessa ricevetti, da un monaco impertinente, lettera in cui mi significava, che non appena mi aveva veduta, concepita aveva la dolcissima speranza di divenir mio confessore. Un attillato vagheggino, un muschiato bellimbusto non avrebbe impiegato frasi più melodrammatiche, per domandare se nutrire o soffocar doveva la detta speranza.

Un prete (che del resto godeva presso tutti una riputazione d’integerrimo sacerdote), ogni qual volta mi vedeva passare dal parlatorio, soleva farmi:

«Ps, cara vien qua...! Ps, ps, vien qua!».

La parola “cara” in bocca di un prete mi moveva non meno nausea, che raccapriccio.

Un prete infine, il più fastidioso di tutti per l’ostinatissima sua assiduità, voleva esser amato da me ad ogni costo. Non ha immagini la poesia profana, non sofismi la rettorica, non scaltre interpretazioni la parola di Dio, ch’egli non abbia adoperate per convertirmi alle sue voglie. Darò un saggio succinto della sua dialettica:

«Bella figliuola» mi disse un dì, «sai tu quello che veramente sia Iddio? »

«È il Creatore dell’universo» risposi io seccamente.

«No, no, no, no! non basta questo» riprese egli, ridendosi della mia ignoranza. «Dio è amore, ma amore astratto, che riceve la sua incarnazione nel mutuo affetto di due cuori che s’idolatrano. Tu, adunque, non puoi né devi amare Iddio nell’esistenza astratta: devi altresì amarlo nella sua incarnazione, ossia nell’esclusivo amore di un uomo che ti adori, quod Deus est amor nec colitur, nisi amando».

«Dunque, nell’atto di adorare il proprio amante, la donna nubile adorerebbe la stessa Divinità!» diss’io.

«Sicuramente!» ripeté dieci volte il prete, ripigliando coraggio dalla mia conclusione, e lieto pel felice effetto del suo catechismo.

«In tal caso» ripresi io prestamente, «mi sceglierei per amante un uomo del mondo piuttosto che un prete... »

«Dio ti liberi! figlia mia: Dio ti liberi da quella peste!» soggiunse inorridito il mio interlocutore... «Amare un uomo del mondo, un profano, un empio, un miscredente, un infedele! Ma tu andresti inevitabilmente all’inferno! L’amore del sacerdote è amore sacro; quello del profano è vituperio; la fede del prete emana dalla stessa fede prestata alla santa Chiesa: quella del profano è menzognera, quanto è falsa la vanità del secolo; il prete purifica giornalmente l’affetto suo nella comunione della santissima sostanza: l’uomo del mondo (seppur sente amore) spazza dì e notte coll’amor suo tutti i fangosi ruscelli del trivio ».

«Ma tanto il cuore, che la coscienza mia rifuggono dal prete» rispos’io.

«Ebbene, se non volete amarmi, perché sono vostro confessore, avrò il mezzo di togliervene gli scrupoli. Alle nostre amorose espansioni premetteremo sempre il nome di Gesù Cristo; così l’amore nostro sarà un’offerta gratissima al Signore, e monterà pregno di profumi al Cielo, siccome fumo d’incenso nel santuario. Ditemi, per esempio: ‘Vi amo in Gesù Cristo; questa notte ho sognato di voi, in Gesù Cristo’; avrete la coscienza tranquillissima, poiché, così facendo, santificherete qualunque trasporto».

Talune circostanze, non indicate qui che alla sfuggita, m’obbligavano a ritrovarmi in frequente contatto con questo prete, di cui taccio il nome.

Se non che, ad un monaco, rispettabile per l’età e per la morale, avendo io domandato che mai significasse quel premettere il nome di Gesù Cristo alle amorose apostrofi, «È» mi disse, «una setta orrenda e sfortunatamente troppo estesa, la quale, abusando del nome di Cristo, si fa lecite le maggiori nefandità».

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