mercoledì 6 maggio 2009

Le Memorie di Enrichetta Caracciolo: V. Il chiostro.

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V
Il chiostro

Maria Teresa d’Austria, seconda moglie del re, aveva in quel mentre dato alla luce il principe Luigi conte di Trani. Erasi perciò ordinato di solennizzare quel fausto avvenimento con tre giorni di gala.

L’esequie di mio padre, che dovevano eseguirsi cogli onori del grado e della carica, non potevano dunque aver luogo nei detti giorni. Fu per tanto imbalsamato il suo cadavere, e si attese che trascorso fosse il periodo di gala.

Intanto col padre noi avevamo veduto venir meno ogni mezzo. Faceva mestieri ricorrere al re, affine di rammentargli i paterni servigi, e per tal modo ottenere una pensione di grazia per nostra madre.

A quest’uopo lasciammo la spoglia mortale, ancora insepolta, in consegna dei miei cognati, abbracciammo piangendo le sorelle maggiori colà maritate, femmo lo stesso colle bambine che nella loro iscienza placidamente dormivano, ed io, Giuseppina e nostra madre, amare lacrime versando, partimmo allo spuntar dell’alba, a dì 29 dello stesso settembre.

Prospero fu il viaggio. Ventisette ore dopo ci trovavamo installate in un appartamento ammobigliato di via Toledo.

Ritorno a Domenico.

Questa domestica catastrofe mi riuniva inaspettatamente a lui. Però mancava il tempo che, col mezzo della posta, Paolo avesse potuto farlo consapevole della sventura che mi avea colpita.

Il giorno appresso, io e Giuseppina eravamo sedute al balcone. Essa fu la prima a discernere Domenico tra la folla. Aprimmo il balcone, ed uscimmo fuori per attirarci i suoi sguardi. Dopo la morte del padre il pensiero mio ricorreva a Domenico, siccome ad un’àncora di speranza. Egli ci vide, e credette di sognare.

Si fermò sbalordito mirandoci, esaminandoci; la gramaglia onde eravamo avvolte lo gettava nello stupore. In questo mentre, affacciatasi pur la madre, comprese egli dalla presenza di lei che nel padre mi aveva colpito il destino.

Entrare nell’istante in un caffè, strappare una carta dal portafoglio, e mandar a mia madre un biglietto, chiedendo il permesso d’informarsi personalmente delle nostre vicende: fu l’affare di un attimo.

Nel rivederlo, non potei frenare il pianto; egli unì la sua alla nostra commozione. Si trattenne lungamente con noi, e nel lasciarci disse, come la nostra disgrazia non poteva alterare i suoi sentimenti per me, anzi reputava propizia quell’occasione per sollecitare l’imeneo: che non appena avessimo sbrigati i nostri affari, e fossimo restituite in Reggio, ci avrebbe seguitate, per fare a suo padre solamente atto rispettoso richiesto dalla legge, in caso che questi insistesse nel suo proponimento di non acconsentire alla nostra unione.

Dopo tali assicurazioni, mia madre gli permise di venire a trovarci tutte le sere.

Molti giorni scorsero intanto prima che avessimo potuto avere udienza dal re: ottenutala, Ferdinando accordò a mia madre una pensione di grazia. Dall’altra parte una domanda di matrimonio veniva avanzata per Giuseppina.

Questo secondo incidente pose ritardo al nostro ritorno a Reggio, dappoiché gli apparecchi del maritaggio richiedevano la presenza di mia madre in Napoli. Eravamo già alla metà di novembre, e gli sponsali non potevano aver luogo prima del seguente gennaio.

Una sera vidi entrare Domenico pallido e sgomentato. Chiestogli il motivo del suo turbamento, mi fece vedere una lettera di suo padre poco prima pervenutagli, la quale gli intimava di subito ritornare in famiglia. Per costringerlo all’ubbidienza, il padre rifiutavasi di soccorrerlo pecuniarmente, ragion per cui, trovatosi il giovine destituito d’ogni sussidio, era fatalmente costretto a ripatriare.

E così fu. Due giorni dopo, fattimi i più fervidi giuramenti di costanza ed ottenuti i miei, se ne partì, promettendo di scrivere a mia madre ogni settimana.

Ahimè! ci disgiungeva il destino per la seconda volta! Quando l’avrei riveduto?

Furono spesi molti giorni in ricevere e render visite ai parenti, che subito non avevano saputo il nostro arrivo. Il più assiduo in visitarci era il generale Salluzzi, la cui sorella trovavasi vedova del principe di Forino, fratello di mio padre. Egli prendevasi vivo interesse di noi e dei nostri affari. Tre zie, monache benedettine, una nel monastero di Santa Patrizia, e due in quello di San Gregorio Armeno, ci si mostravano pur affezionate. Erano desse somigliantissime in volto al deplorato nostro padre loro fratello, senonché maggiori di lui per età, poiché tutte tre ottuagenarie.

Lasciata avendo la capitale in età di sei anni, ed essendo rimasta fino allora assente nelle Calabrie, io non conosceva di persona nessun parente; tutto m’era nuovo in Napoli. Una di queste zie, quella appunto della quale io portava il nome, era badessa in San Gregorio Armeno.

Più volte intanto scrisse Domenico a mia madre, assicurandola in ogni lettera d’aver dato qualche nuovo passo innanzi al tanto sospirato matrimonio; suo padre mostrarsi tuttavia avverso, ma non potere finalmente, che cedere alle preghiere del figlio, e all’intercessione autorevole dell’avo. Dal suo stile però traspariva, che, per la mia prolungata assenza, agitato era di nuovo il suo spirito dal demone della gelosia. Pochi giorni dopo ci perveniva un’altra lettera, seguita da un poscritto a me diretto, nei seguenti termini:

«Cara Enrichetta, nociva è all’amore l’aria di Napoli. Il fascino di quella città non mi lascia pace sul conto tuo. Ritorna presto, se mi ami di verace amore... Ma se nel ricevere la presente non t’affretti a raggiungermi qua, io mi crederò sciolto dai giuramenti a te fatti».

Nel leggere queste parole, mia madre montò sulle furie, e senza permettere a me di dare risposta alcuna, senza prendere in considerazione l’indole sospettosa di Domenico, pigliò la penna e scrisse:

«Signore, voi pretendete d’imporre leggi a mia figlia prima di averne il diritto; essa non è vostra, né sarà vostra giammai. Sia da questo punto troncata ogni trattativa di matrimonio fra voi due».

Le mie suppliche, le mie lagrime non giunsero a tempo. La lettera era già partita; Domenico non iscrisse più. Però nel fondo viveva tuttora la speranza, che quando sarei ritornata in Reggio l’affetto dell’amante si sarebbe rinfocolato, seppure il freddo soffio della gelosia non avesse avuta la forza di spegnerlo.

Ma la mia avversa stella aveva altrimenti disposto! Io mi pasceva di splendide speranze, mentre spalancata stavami a’ piedi la voragine.

Era prossimo il Natale; le nozze di Giuseppina dovevano celebrarsi privatamente il secondo giorno di gennaio.

Disse un mattino mia madre, che urgenti faccende l’obbligavano ad uscir sola, ma che sperava di non trattenersi lungamente fuori di casa.

Ritornò infatti dopo un’ora di assenza: la contemplai, mi parve giuliva anzi che no; donde dedussi e congetturai, che l’affar suo di premura avesse avuto un esito prospero. Né devo nascondere il fatto, che palpitai per inquietudine, supponendo non si tramasse a mia insaputa qualche progetto di matrimonio, il quale stesse per definitivamente separarmi dall’oggetto dei miei pensieri.

Erano appena scorsi pochi giorni da questa gita misteriosa, quando una mattina, alle Otto, fu suonato alla porta. Il domestico non era in casa: l’uscio fu aperto da me.

Una fantesca, che conobbi per quella della mia zia badessa, recava sulla guantiera un dono di dolci.

Alla prima vista del dono rimasi conturbata, avendo supposto che quello esser potesse l’esordio d’una qualche trattativa di matrimonio per me: tale presso alcuni è l’usanza. Le sembianze della fantesca mi rinfrancarono: io respirai.

«Siete voi la signorina Enrichetta?» domandò questa.

«Sì» risposi.

«La signora badessa vostra zia vi saluta...»

«Grazie, grazie: altrettanto da parte mia!»

«E vi fa conoscere che il Capitolo è riuscito all’unanimità per l’ammissione vostra al monastero...»

«Per l’ammissione mia...! Per me! Buona figliuola, v’ingannate» risposi ridendo di buon cuore.

«Sì, signora, per voi stessa; non m’inganno, no. Venite dunque subito a ringraziare le monache, e fissare il giorno dell’entratura».

Mia madre, non vedendomi ritornare sull’istante, veniva a vedere con chi m’intrattenessi all’uscio, e giungeva a tempo per udire le ultime parole della cameriera. Comprendendo che quel discorso, quanto inaspettato, altrettanto spaventevole, doveva stordirmi per modo da togliermi l’uso della favella:

«Va bene, va bene» disse, sospingendomi e facendosi avanti. «Ringrazia cordialmente mia cognata, e dille che la monachella le sarà condotta oggi stesso».

Ciò detto, chiuse l’uscio, e presami per la mano, divenuta più fredda del ghiaccio, mi menò nella camera da letto.

Se un fulmine mi avesse atterrata, non avrei ricevuto una scossa più formidabile.

Proruppi in singulti disperati, mi rovesciai bocconi sull’origliera del canapè, che innaffiai con molte lagrime, indi mi slanciai in grembo alla madre, implorando misericordia alle sue viscere.

Ella, imperturbabile di contegno, sebbene non priva di commozione, stese la mano sulle mie palpebre per asciugarmi col fazzoletto le lagrime. Poi, in tuono grave, e con parole misurate, che mi risuonano tuttora all’udito come sentenza di pena capitale, disse essere stata costretta a fissare il mio ingresso nel monastero sì dalle ristrette sue finanze, sì dal mio capriccio per Domenico.

«Le tue zie» soggiunse, «sono ricche; consegnandoti a loro infino a tanto ch’io cominci a percepire le mie pensioni, sarò sgravata di un peso. Sono sicura d’altronde che la pace del Convento servirà di molto a calmare il tuo cuore, turbato da una folle passione... Ma, dopo due mesi, le amorevolezze delle monache non avranno espulso dal cuore tuo l’aborrimento pel chiostro, prometto di riprenderti meco. Per ora ritrattarmi non posso, fatto già essendo a tuo favore il Capitolo per l’ammissione».

«Mamma!» esclamai, gettandomi ai suoi piedi, e serrandole convulsivamente le ginocchia: «Mamma, non mi rinchiudere, per pietà! Al solo nome del monastero mi sento presa dalla disperazione!».

Ella si alzò bruscamente, svincolandosi dalle mie braccia, ed in tuono severo mi disse:

«Tuo padre non ha lasciato per te né dote né tutore: l’arbitra della tua sorte sono io sola... le leggi divine ed umane t’impongono l’ubbidienza, e, affé di Dio, tu ubbidirai!».

Contenni, per ultimo segno di protesta, i singhiozzi, e non aggiunsi parola. Del resto, ogni osservazione ulteriore sarebbe tornata ugualmente vuota di effetto. Se, per oratori e per filosofi, nume tutelare era sotto il regime borbonico il Dio Silenzio, quanto più lo doveva essere per una giovane orfana, derelitta, e ancor minore?

Vedutami ammutolita, impietrita, colle mani giunte, cogli occhi volti al cielo, colla più profonda costernazione impressa nel mio atteggiamento, parve la madre mossa a pietà della figliuola; per lo che, raddolcendo la voce, e venuta a carezzarmi colla destra le inanellate trecce, prese ad esortarmi in accenti meno duri, in sensi più conformi alla materna carità. Disse: il convento non essere carcere, come il mondo generalmente suppone, ma sì orto di salute, intemerato asilo, ove le anime, superiori alle sociali vanità, od abbeverate da disinganni, rinvengono respiro non mai contaminato dall’alito funesto delle passioni né soggetto alle procelle del secolo.

Trovarsi d’altronde profusi in que’ ritiri, non soltanto gli spirituali conforti, ma inoltre tutti gli agi della vita nobile, e perfino le raffinatezze e le oneste ricreazioni del mondo elegante. Se così non fosse, come vi si sarebbero albergate tante e tante centinaia di giovanette, discese dalle più illustri prosapie di Napoli, munite di vistose dotazioni? Alla fin fine, l’ingresso mio nel chiostro non sarebbe stato che un breve saggio di due mesi, allo spirar de’ quali avrei, volendolo, ricuperata senza fallo la mia libertà, per farne l’uso che meglio mi converrebbe. Mi disse queste, ed altre cose ancora.

Erasi frattanto proposta di condurmi al monastero nella giornata, ma l’enfiagione dei miei occhi essendo tale da metter paura, dovette suo malgrado astenersene.

Il giorno appresso, veggendo che invano si sarebbe attesa la fine del pianto, mi ordinò di apparecchiarmi... Povera Giuseppina! Io non aveva né la mente né il cuore a segno... Fu dessa che mi allestì. La madre, ora rimproverava le mie esitazioni, ora m’incoraggiava dicendomi:

«Sta’ pure certa che fra due mesi verrò a riprenderti!».

Dalla carrozza scesi alla porta del monastero contristata, e montai piangendo la prima scala che mena alla seconda, detta della clausura.

Nell’aprire la porta suddetta, la portinaia suonò un campanello onde avvertire la Comunità che la vittima stava per entrare.


Mia zia, l’abbadessa, trovavasi nella porterìa, e fu la prima a venirmi incontro. Tutta contenta mi strinse al seno, e susurrommi all’orecchio in tuono affabilmente imperioso di ringraziare le monache del favore che mi avevano usato, accettandomi per loro compagna. Le venerande sembianze e la voce di mio padre, ripetute nel volto e nella pronunzia della badessa, mi scossero per modo che credetti di cader tramortita.

Frattanto le monache accorrevano in folla per vedermi, cacciando la testa le une sulle altre, e salendo per fino sulle seggiole. Né facevano a bassa voce i loro commenti intorno alla mia persona. Chi mi trovava bella, chi brutta, chi simpatica, chi antipatica, chi di contegno docile, chi d’aspetto recalcitrante. Io mi sentiva oppressa, soffocata: avrei preferito di morire piuttosto che entrare per ispontanea volontà in un luogo, dove il libro della civiltà prometteva fin dalla prefazione guarentigie sì scarse.

I ringraziamenti, raccomandati dalla badessa, furono proferiti non da me stessa, ma sibbene dalla madre, la quale fra le altre cose disse come la mestizia del mio volto non dovevasi attribuire ad altra cagione, se non alla morte recente di mio padre, e alla separazione dalla famiglia. Il discorso, non lungo, ma condito di complimenti copiosissimi a nome mio recitati, venne interrotto dall’arrivo dell’altra mia zia paterna, chiamata Lucrezia, la quale, perché accidentata sì alle membra che nel senno, entrò sostenuta da due converse.

Gli sponsali di Giuseppina erano stati fissati al 2 gennaio 1840. Si fermò adunque col consenso della madre e della zia badessa, che sarei entrata nel convento due giorni dopo le nozze.

Ritornata in casa, ricusai di prendere alimento alcuno; e fino al giorno fatale, i miei occhi non cessarono di versare gran copia di lagrime.

Quanti sforzi magnanimi non usarono i parenti paterni, onde indurre mia madre a non sacrificarmi! Rispondeva costei, che farmi dimorare due mesi in un convento di nobili donzelle, non era al certo volermi immolare. Tale infatti, com’ebbi più tardi l’occasione di verificare, era allora la sua intenzione.

La principessa di Forino si offrì di tenermi in casa sua per quei due mesi, ed i suoi figli, miei cugini, s’impegnarono a farmi sposare il duca di * nostro lontano parente, e allora vedovo. Mia madre rese grazie dell’offerta gentile, e disse che del matrimonio se ne sarebbe riparlato al suo ritorno di Calabria.

Né soltanto gli stretti parenti, ma pure agnati ed amici gareggiarono in quella circostanza di compassione e di benevolenza in mio soccorso. Il generale Salluzzi, uomo dotato di non comune filantropia, e commilitone di mio padre, mi assicurò che qualunque fosse per essere nell’avvenire lo stato mio, egli mi avrebbe fatto un dono di mille ducati.

La sera de’ 2 gennaio avvenne, com’era stato prestabilito, lo sposalizio di Giuseppina: l’accompagnai piangendo (inseparabili sono le lagrime dal mio dramma!). Essa andava nelle braccia d’un uomo che amava: io, misera, mi allontanava per sempre e da lei e da ogni altro essere diletto.

Il mio pianto, estremo sospiro d’un agonizzante, contristò la funzione... Funesto presagio in una sera di nozze.

Al fine sorse l’alba del sabato 4 gennaio.

Io portava allora i capelli in lunghi ricci. Nell’atto d’acconciarmeli in quella foggia consueta, la voce della madre mi fermò.

«Che vai facendo?» mi diss’ella: «Ti pare sia quella un’acconciatura che si addica a convento? Sciogliti presto i ricci! Stamane devi solamente lisciare i capelli».

«Ma, Dio buono, io non entro nel convento per farmi monaca!» risposi indispettita al sommo. «Se non devo abitarci che per due soli mesi, perché disadornare la mia pettinatura, perché smettere le mie abitudini?»

«Ch’io non ti voglia far monaca, tu ben lo sai; ma la badessa mi ha raccomandato di non menarti stamani colla chioma preparata così, affinché le monache non ti chiamino vanarella».

E in così dire, prese il pettine, e di propria mano mi lisciò i capelli.

Di là a poco venne il generale Salluzzi e la nuora della principessa di Forino, che dovevano accompagnarmi al chiostro.

Lungo il tratto di strada che dalla Madonna delle Grazie a Toledo mena a San Gregorio Armeno, mi sentii immersa in uno stato morale, che partecipava dello stupore e dell’estasi. Parevami d’essere nelle angustie d’un sogno funesto. Fu assalita la mia memoria dalle più care e patetiche rimembranze d’un passato, ch’era in procinto di separarsi da me per un tempo non determinato con sicurezza: mi tornarono in mente gl’innocenti trastulli dell’infanzia, divisi con amiche più fortunate di me: le tenere carezze di mio padre, e gli ultimi fatali suoi compianti: i gaudi dei primi amori, e l’immagine di Domenico... Ahi! specialmente a questa reminiscenza ricorse più spesso la mia memoria, straniera perfettamente a tutto ciò che avveniva o dicevasi a me d’intorno.

Mia madre aveva avuto cura di coprirmi il volto d’un fitto velo, acciocché il mio pianto non divenisse lungo la via argomento di pubblico spettacolo: nondimeno il fazzoletto, che spesso mi portava agli occhi, facea volgere la gente verso di me, siccome conobbi, ad intervalli, dalle osservazioni delle persone che m’accompagnavano.

Giunsi intanto al luogo prefisso.

Le porte si spalancarono: orride fauci di mostro. Mi sentii di repente aggraffata per le mani, spinta, urtata alle spalle, trascinata non so dove: udii stridere con sinistro cigolìo i catenacci, che risbarravano l’orribile porta; mi fu strappato il nastro che fermava il cappello, tolto lo scialle... ed allorquando cominciai a discernere partitamente gli oggetti, mi trovai inginocchiata innanzi ad un grande cancello di legno dorato.

Era il coro!

Una monaca mi disse:

«Ringrazia Iddio del benefizio di averti condotta in luogo di salute!».

Non risposi, né ringraziai. Essendo in me ritornata la ragione, per poco smarrita, un’idea trista mi balenò al pensiero.

Il presagio, ahi! troppo presto avverato, del moribondo mio genitore.

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