martedì 5 maggio 2009

Le Memorie di Enrichetta Caracciolo: IV. Il lutto.

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IV
Il lutto

La pace fatta avea riaccesa la passione in seno ad entrambi. Nel giorno del lunedì passò egli più volte sotto le mie finestre. Io ne distingueva il passo; e sempre che mi riuscisse di non farmi vedere dalla madre, correva a risalutarlo. Intorno alla mezzanotte rinnovellammo gli addii.

Era già un’ora dacché io giaceva tutta agitata in letto, senza poter chiudere gli occhi, allorché udii un cupo rumore sotterraneo straordinario che mi spaventò. Sollevai il capo: mi girava. Tentai sedermi in letto: una scossa gagliarda di terremoto mi rovesciò sui guanciali.

Allo scricchiolìo delle porte e delle finestre, al tintinnare de’ campanelli, tutti si destano. Giuseppina balza dal letto: io la seguo vacillante, ed ambedue corriamo nella stanza de’ genitori, i quali già accorrevano incontro a noi per intimarci che ci vestissimo alla meglio, e andassimo a cercar rifugio nella grande piazza del quartiere, che era vicino alla nostra abitazione.

Una seconda scossa, più forte della prima, ci atterrì. Fuggimmo in abito da camera. Mia madre teneva nelle braccia una delle sue bambine, io afferrava l’altra, che in mezzo alla strada consegnava ad una persona di servizio, affine di rassettare in fretta il mio scomposto abbigliamento.

Lunghissimi erano i miei capelli: le treccie, svolte nella corsa, mi pendevan disordinatamente sugli omeri.

Mi sentii leggermente tirare per la chioma. Mi volsi: era Domenico, il quale a voce sommessa mi sussurrò all’orecchio:

«Benedetti i terremoti, che mi danno il contento di rivederti, e darti un altro addio»

«Ritornerai presto?»

«Sì, cara: mi tratterrò in Napoli un mese solo».

Il tuono fermo di questa promessa era in contrasto col suolo, che tuttavia oscillava sotto l’impulso del tremendo fenomeno. Le genti fuggivano a tutta possa dalle case loro. Il fragore che facevano i camini precipitando a terra da’ tetti, gli urli, le preci, gli ululati de’ cani, il cantar de’ galli assordavano l’aria; perfino gli uccelli, spauriti dalla catastrofe, avevano abbandonati i nidi, e volavano e rivolavano sul nostro capo, mandando striduli lamenti. Era insomma una scena di spavento universale, di scompiglio, di desolazione, da non essere giammai cancellata dalla memoria.

Domenico si accostò a mio padre, e lo salutò; egli l’accolse garbatamente, ed entrò seco lui in discorso per quasi un’ora, durante la quale le scosse di tremoto incessantemente si succedevano. Avendo però fermo di partire prima del levar del sole, e veggendo che l’alba già incominciava ad infiammare l’oriente, mi chiese la mano, la strinse teneramente, poscia su quella di mio padre impresse un bacio rispettoso. Nel passare dinanzi a mia madre, la salutò del pari. Costei lo chiamò.

«È egli vero, signor Domenico, che siete in procinto di partire?»

«Fra mezz’ora m’imbarcherò. Parto per ubbidire agli ordini paterni; ma, Dio volendo, farò ritorno non più tardi di un mese. Allora, sia col suo, sia senza il suo consenso, per mezzo dell’avo mio vi chiederò nuovamente la mano di vostra figlia; né suppongo che me la vogliate negare, avendo veduto che nulla finora poté scemare l’ardente e reciproco amore che ci portiamo».

«Va bene» rispose mia madre: «al vostro ritorno ne parleremo».

Gli porse la mano, ed ei se la portò alla bocca, dicendole:

«Cara madre, siate pietosa!».

Ella sorrise, ed egli esultante se ne partì. Dolorose ricordanze!

Le lagrime mi bagnavano le gote, e la piena degli affetti mi toglieva l’uso della parola. Confidai alla carità degli sguardi il patetico messaggio, che ricusava la lingua di articolare. Entrambi ci sogguardammo sino a tanto che ci fu dato vederci, e quando egli fu scomparso, ancora col favor dell’udito io raccolsi lo spirante rumore de’ suoi passi.

Conviene credere, che ogni persona abbia nella sua vita una qualche data nefasta, un qualche critico avvenimento e di sinistra ricordanza, che dà principio ad una serie non interrotta di susseguenti disastri. L’ora nefasta della vita mia era dall’oroscopo segnata nel mezzo di quella spaventosa notte, in cui lo squilibrio degli elementi minacciò di distruggere Reggio ed altre città delle Calabrie.

Altre tristezze io non aveva provato fino allora, se non quelle inevitabili che l’amor vergine cagiona; e sa ciascuno i soavissimi compensi, di che sono rattemprate quelle mestizie. D’allora in poi ogni gioia si tace, il cielo s’imbruna d’ogni intorno, il riso non è più vivo per me: di qua comincia la mia dolorosa storia. Inde lachrymae!

Per la paura de’ terremoti, non potemmo tornare in casa, che la mattina del sesto giorno; non già perché cessato del tutto fosse il pericolo, ma perché mio padre, ormai settuagenario, e pregiudicato inoltre nella salute dal lungo disagio, accusava un malessere generale.

Io amava, adorava questo padre con tenerezza non comune: l’amava più della madre, e non senza ragione. V’ha de’ genitori, i quali non contenti di usare un’ingiusta predilezione a favore d’uno o di più figli, hanno pure l’imprudenza amara di farne in famiglia incauta mostra. Mia madre (aggravo con dolore la sua memoria) non andava esente di tale debolezza, giacché, per non so quale istinto, prona alle domestiche preferenze, non si prendeva almeno la cura caritatevole di velarle agli occhi de’ meno amati. Ora nel numero delle sue predilette non era io, né scorreva giorno alcuno ch’io non me ne convincessi per novelle ed evidenti prove. Mio padre, in compenso, suppliva alla scarsezza dell’affetto materno, raddoppiandomi il suo.

La sera del 21 settembre io sedeva al piano-forte, intenta a ricreare il genitore, e stava cantando un’aria della Norma, a lui diletta, quando lo udii sospirare. Credetti che qualche spiacevole pensiero l’avesse turbato di passaggio, e proseguii il canto.

Un secondo sospiro, seguìto da una sommessa prece, mi giunse all’orecchio.

Mi alzai tosto, ed avvicinatami a lui chiesi di ciò che tanto l’affliggesse.

«Non sono afflitto» disse, «ma mi sento male, e mi rincresce di non condurre al teatro stasera».

«Che mai dite? di questo vi duole? Ecco levati i nastri dalla mia chioma!».

E in così dire, deposi la pettinatura sopra la sedia.

Chiamai Giuseppina, chiamai la madre. Il vecchio disse alla moglie sentirsi gravemente ammalato dal mezzodì in poi, e che credeva le sue sofferenze sintomi di vicina morte.

Lo menammo nella sua stanza col cuore spezzato da tali detti, e si mandò a chiamare il medico. L’indomani un consiglio di professori dichiarava, che il malato era affetto da una infiammazione de’ visceri.

Al quarto dì perdevano i medici ogni speranza di poterlo risanare, ed al settimo ci annunziarono come, vani essendo riesciti i loro sforzi, dovevamo somministrargli gli ultimi conforti della religione.

Non comprenderanno appieno la violenza de’ miei singulti, la mia disperazione, se non quelle fra le orfane, che rimasero orbate d’un genitore, al cui affetto avevano esclusivamente affidata la somma de’ beni presenti e futuri! L’estrema unzione d’un tale padre spande per le funeree fiaccole sull’avvenire dell’orfano riverberi tanto foschi, che verun sole avrà più la virtù di dissipare.

Terminata la lugubre funzione, volemmo essere ricondotte nella sua stanza. Lo ritrovammo poggiato sul fianco dritto, colle spalle alla porta per cui s’entrava.

Il mio volto era contraffatto dal pianto: gli astanti mi fecero segno di non avvicinarmi a lui. Sedetti allora accanto alla porta, a stento frenando le lagrime.

Cupo silenzio regnava, non da altro interrotto che dall’andito affannoso di mio padre. Le sue palpebre socchiuse si riaprirono ad un tratto, e gridò:

«Enrichetta! ». M’avvicinai al letto, ma il letargo l’ammutolì.

Dopo un tratto cercò di rialzarsi e chiamò nuovamente, e più forte: «Enrichetta!»

«Son qui» gli dissi... «son qui. Che desiderate, padre dolcissimo?».

Mi fissò con un occhio impietrito, ma tenerissimo, di cui eterna mi resterà la rimembranza; poi domandò:

«Perché mi lasci?»

«Sono vicina a te» risposi con voce soffocata dal singhiozzo. Ed egli:

«Sai che ho ricevuto i sacramenti?»

«Lo so».

«Mi sento in pace coll’anima» ripigliò. «Solo una cosa mi fa morire scontento, ed è il tuo avvenire... Che ne sarà di te, povera figlia?».

Profetiche parole, che nelle mie ulteriori vicende ebbi presenti sempre, e ad ogni passo!

L’indomani egli era prossimo all’agonia. In un intervallo di lucidità chiamò mia madre a sé, e le disse in accenti male articolati:

«Teresa, conduci altrove queste povere figlie! La loro vista mi opprime il cuore. Esse perdono il padre prima d’aver avuto uno sposo che possa proteggerle e soccorrerle. In questi estremi momenti debbo pensare alla divina misericordia, e lasciare ad essa la cura del resto».

Mia madre ci fece cenno di approssimarci: c’inginocchiammo tutte.

Egli stese le mani tremanti, e ci benedisse. Ci sogguardò una per una, poi richiuse gli occhi.

Sulla sera il confessore entrò mesto nella nostra stanza, e il suo silenzio ci disse che non avevamo più padre!

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