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Navigazione: PROLOGO. Fuori dall’Europa. – L’«Occhio»: Lettere del 17 maggio 1518, del 10 ottobre 1518. – PRIMA PARTE. Il Coniatore. a) Frankenhausen: Capitoli: 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7. - La dottrina, il pantano: 8. – L’«Occhio»: Lettere del 14 maggio 1521, del 27 ottobre 1521. – Capitoli: 9 - 10 - 11. - La sacca, i ricordi: 12 - 13 - 14 - 15 - 16 - 17 - 18 - 19 - 20 - 21 - 22 - 23 - 24 - 25 - 26 - 27 - 28 - 29. – L’«Occhio»: Lettere del 28 maggio 1525, del 22 giugno 1526, del 10 giugno 1527, del 17 settembre 1527, del 1 ottobre 1529.
A seguire:
– PARTE SECONDA – PARTE TERZA - EPILOGO
PRIMA PARTE
Il Coniatore
Frankenhausen
(1525)
Il Coniatore
Frankenhausen
(1525)
Capitolo 2
16 maggio 1525
16 maggio 1525
Giunge il chiarore dell’alba. Mi accascio, esausto.
Quando ho riaperto gli occhi, nel buio completo della notte e della mia esistenza, la prima sensazione è stata l’assoluto torpore delle membra.
Da quanto tempo se n’erano andati?
Dalla strada salivano imprecazioni di ubriachi, rumori di gozzoviglie, grida di donne sottoposte alla legge dei mercenari.
A ricordarmi di essere vivo, un prurito d’inferno: sulla pelle una corazza di sudore, paglia e polvere.
Vivo, libero di tossire e gemere.
Soltanto rialzarmi e issarmi sul tetto con la sacca e la spada è stata una fatica improba. Ho atteso il tempo di abituarmi all’oscurità scrutando il volto della città della morte.
Sotto, il bagliore dei falò sparsi ovunque illuminava le ghigne dei soldati in baldoria, intenti a bersi il compenso della vittoria più facile.
Di fronte, buio. Il buio totale della campagna. Sulla sinistra, a poche decine di passi, un tetto sporgeva più degli altri, scavalcando il vicolo sottostante, fino al confine dell’oscurità assoluta. Strisciando sui tetti, ho trascinato la schiena spezzata fino a quel limite: le mura. Alte come tre uomini, nessuno di guardia. Le ho percorse.
Dapprima non ne ho sentito l’odore: la bocca era una cloaca, il naso pregno del sudore e della sporcizia... Poi l’ho avvertito: letame. Letame proprio lí sotto. Mi sono lasciato cadere, cosí, nel buio, che importava.
Un cumulo di letame.
Di corsa, via, assetato, di corsa, poi ho camminato, inciampato, via, e camminato, via, via, affamato, più veloce della morte che mi ha sfiorato e del puzzo di merda che mi inseguiva, finché le gambe reggevano.
L’alba.
Sdraiato in un fosso, bevo acqua fangosa. Sprofondo nell’oscurità mentre si leva il sole.
Il cielo arde a ponente. Ogni anfratto del corpo brucia; incrostato di merda e fango: vivo.
Campi, covoni, il margine di un bosco qualche miglio a sud. Riprendere a scappare. Devo aspettare il buio.
Solo. I miei compagni, il maestro, Elias.
Solo. I volti dei fratelli, cadaveri stesi nella piana.
La sacca e la spada sembrano pesare il doppio. Sono debole: devo mangiare. A pochi passi spighe verdi di grano. Ne strappo a manciate. Mando giú a fatica.
Mi chiedo che aspetto devo avere, osservo l’ombra lunghissima sul terreno. Alza una mano e se la porta al viso: gli occhi, la barba, non sono io. Non lo sarò mai più.
Pensare.
Dimenticare l’orrore e pensare. Poi muoversi e dimenticare l’orrore. Poi ancora, distruggere l’orrore e vivere.
Pensare, dunque. Cibo, soldi, vestiti.
Un rifugio, lontano da qui, un posto sicuro, dove avere notizie e rintracciare i fratelli scampati.
Pensare.
Hans Hut, il libraio. Nella piana, la sua fuga alla vista delle corazze del duca Giorgio, prima del macello. Se qualcuno s’è salvato è Hut.
La sua stamperia è a Bibra, vicino a Norimberga. Anni fa pullulava già di fratelli. Un approdo per molti.
A piedi, di notte, senza usare le strade, per i boschi e al limitare dei campi, saranno almeno una dozzina di giorni.
Quando ho riaperto gli occhi, nel buio completo della notte e della mia esistenza, la prima sensazione è stata l’assoluto torpore delle membra.
Da quanto tempo se n’erano andati?
Dalla strada salivano imprecazioni di ubriachi, rumori di gozzoviglie, grida di donne sottoposte alla legge dei mercenari.
A ricordarmi di essere vivo, un prurito d’inferno: sulla pelle una corazza di sudore, paglia e polvere.
Vivo, libero di tossire e gemere.
Soltanto rialzarmi e issarmi sul tetto con la sacca e la spada è stata una fatica improba. Ho atteso il tempo di abituarmi all’oscurità scrutando il volto della città della morte.
Sotto, il bagliore dei falò sparsi ovunque illuminava le ghigne dei soldati in baldoria, intenti a bersi il compenso della vittoria più facile.
Di fronte, buio. Il buio totale della campagna. Sulla sinistra, a poche decine di passi, un tetto sporgeva più degli altri, scavalcando il vicolo sottostante, fino al confine dell’oscurità assoluta. Strisciando sui tetti, ho trascinato la schiena spezzata fino a quel limite: le mura. Alte come tre uomini, nessuno di guardia. Le ho percorse.
Dapprima non ne ho sentito l’odore: la bocca era una cloaca, il naso pregno del sudore e della sporcizia... Poi l’ho avvertito: letame. Letame proprio lí sotto. Mi sono lasciato cadere, cosí, nel buio, che importava.
Un cumulo di letame.
Di corsa, via, assetato, di corsa, poi ho camminato, inciampato, via, e camminato, via, via, affamato, più veloce della morte che mi ha sfiorato e del puzzo di merda che mi inseguiva, finché le gambe reggevano.
L’alba.
Sdraiato in un fosso, bevo acqua fangosa. Sprofondo nell’oscurità mentre si leva il sole.
***
Il cielo arde a ponente. Ogni anfratto del corpo brucia; incrostato di merda e fango: vivo.
Campi, covoni, il margine di un bosco qualche miglio a sud. Riprendere a scappare. Devo aspettare il buio.
Solo. I miei compagni, il maestro, Elias.
Solo. I volti dei fratelli, cadaveri stesi nella piana.
La sacca e la spada sembrano pesare il doppio. Sono debole: devo mangiare. A pochi passi spighe verdi di grano. Ne strappo a manciate. Mando giú a fatica.
Mi chiedo che aspetto devo avere, osservo l’ombra lunghissima sul terreno. Alza una mano e se la porta al viso: gli occhi, la barba, non sono io. Non lo sarò mai più.
Pensare.
Dimenticare l’orrore e pensare. Poi muoversi e dimenticare l’orrore. Poi ancora, distruggere l’orrore e vivere.
Pensare, dunque. Cibo, soldi, vestiti.
Un rifugio, lontano da qui, un posto sicuro, dove avere notizie e rintracciare i fratelli scampati.
Pensare.
Hans Hut, il libraio. Nella piana, la sua fuga alla vista delle corazze del duca Giorgio, prima del macello. Se qualcuno s’è salvato è Hut.
La sua stamperia è a Bibra, vicino a Norimberga. Anni fa pullulava già di fratelli. Un approdo per molti.
A piedi, di notte, senza usare le strade, per i boschi e al limitare dei campi, saranno almeno una dozzina di giorni.
(seguito)
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