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VI
L’abbandono
L’abbandono
Come fui uscita del coro, dissero di volermi menare intorno pel monastero.
Chiesi di mia madre: mi fu detto che, per non tenere impediti il generale e la contessa mia cugina, mi aveva lasciata, ma che non avrebbe mancato di tornare il giorno appresso.
Due giovani monache sorelle mi accompagnavano: chiamavansi Concettina e Checchina. Io aveva bisogno d’aria: l’ambascia mi toglieva la respirazione; accolsi adunque il loro invito di farmi veder nel monastero loro ciò che eravi di notabile.
La visita cominciò dal tempio sacro a san Gregorio l’Illuminatore.
Fu detto da valenti archeologi essere il suolo di quella chiesa il terreno stesso che era anticamente occupato dal tempio di Cerere, il quale con quello dei Dioscuri, col teatro grande e con la basilica, circoscrivevano la piazza Augustale, ora ingombra dalla vasta chiesa dal convento di San Lorenzo maggiore. È questo un errore. Le qualificazioni suddette non sono punto applicabili alla chiesa attuale, la quale fu edificata sopra suolo diverso, allorché venne demolita l’antica, in conseguenza de’ decreti del Concilio Tridentino, che verso il 1580 costrinse le monache a sovvertire gli ordini antichi, e dare ben diversa disposizione all’interno della fabbrica, secondo i rigori della moderna clausura. Raccontano le leggende, che il tempio di Cerere dalla pia moglie di Costanzo Cloro convertito in santuario cristiano, fosse circondato da larghi edifizi posti sotto il patrocinio di san Pantaleone. Non meno erronea è questa tradizione. Se la memoria non m’inganna, quel santo orientale fiorì dopo il regno di Costantino il Magno. Ciò che di positivo si conosce rimonta a tempi posteriori, ed ha special relazione colla persecuzione iconolastica, scoppiata in Costantinopoli per opera dell’imperatore greco Leone l’Isauro, quel Lutero coronato del medio evo. Uno stuolo di monaci e di vergini claustrali disertò allora la Grecia, per ischivare il fanatismo del clero e del popolo riformato. L’Italia ne fu invasa: Roma offrì ai profughi ortodossi generosa ospitalità; e Napoli, che aveva comuni coi Greci, non che l’origine e la lingua in parte e i costumi, ma pure il rito e la liturgia e la sommessione al medesimo gerarca, Napoli, dico, e le limitrofe provincie vidersi nel periodo d’un secolo ingombre di quegli esuli, i quali, tosto ricomposti in religiose comunità, vi costruirono innumerevoli chiostri sotto la regola di san Basilio. Autori, degni di tutta fede, raccontano che solamente in queste nostre provincie meridionali, e non compresa la Sicilia, in circa mille monasteri greci, fra grandi e piccoli, militavano fino alla metà del secolo XV sotto la regola suddetta.
La chiesa ed il monastero, di che tengo parola, godono l’anzianità fra tutti dell’ordine medesimo in Napoli fondato, ed ebbero a protettore san Gregorio Armeno, perché le vergini fuggitive, che vi si costituirono, avean con esso loro recata la reliquia di questo apostolo dall’Armenia. La caduta dell’impero greco, cagionata dalla conquista di Maometto secondo, e la soggezione del patriarcato bizantino che ne derivò, diedero il tracollo al carattere, non che al rito orientale, che l’Ordine basiliano aveva fino a quel punto conservati in Italia. Ma per ragioni non abbastanza note, i monasteri di donne abbandonarono la regola di san Basilio, per abbracciare l’altra non molto dissimile ed omogenea di san Benedetto, ancor prima che i conventi di monaci basiliani si fossero del tutto latinizzati: fatto avvenuto dopo quelle tre potenti e consecutive crisi della Chiesa occidentale: la riforma, il gesuitismo, ed il concilio di Trento; crisi successe nel XVI secolo.
Nella facciata della chiesa di San Gregorio1, sopra un alto basamento con tre archi di fronte, costrutto a bugne, si elevano due altri ordini di costruzioni, il composito sul dorico. Pochi scalini conducono all’atrio spazioso retto da quattro pilastri, su cui poggia il coro grande delle monache. In fondo è l’ingresso principale della chiesa; ed entrandovi, trovasi una sola navata con quattro cappelle in ciascun dei lati e due vani, di grandezza eguale alle cappelle, occupati al davanti per metà da due organi: di quei vani uno serve al passaggio della sagrestia e della minor porta, l’altro per i confessionali. Un balaustro divide la nave dal presbiterio, dove si erge l’altar maggiore, fra quattro archi simili che sorgono per sostenere la cupola. L’ordine architettonico dell’intera fabbrica è il composito, ma oltremodo ripieno di cornici, fogliami, decorazioni ed ornamenti d’ogni genere, tutti dorati, e nelle superficie piane dorati a foggia di damasco; e non è spazio vuoto che non sia coperto di pittura a fresco: cose tutte le quali certo meglio si addicono al fasto de’ ricchi palagi baronali (o dei teatri), anzi che alla devota semplicità della casa del Signore. La porta grande è costrutta di legno di noce con buoni intagli in rilievo, rappresentanti i quattro Evangelisti, ed in mezzo i due santi Stefano e Lorenzo, circondati da ornamenti. La soffitta, che è di legno intagliato e dorato, dividesi in tre grandi quadri principali, in cui sono tre pitture di Teodoro il Fiammingo, figuranti san Gregorio in vesti pontificali con libro aperto nelle mani fra due assistenti all’altare; lo stesso santo che riceve le monache nel suo ordine; ed il battesimo del Redentore; suddividesi poi in tanti piccoli compartimenti di forme diverse, i quali contengono una pittura di esso Teodoro, se non mostrano un rosone intagliato. I due organi collocati con le orchestre ne’ due vani sono ricchi de’ più bizzarri intagli, dorati ad oro fino. Ornano poi le cappelle molti lavori a commettitura di marmi scelti e svariati, ed han tutte un balaustro di marmi, parimente commessi in forma di fogliami a traforo; e sopra, altri lavori di bronzo a getto, con in mezzo un cancellino composto dello stesso lavoro e metallo.
Delle pitture, i tre quadri sulla porta, nei quali è rappresentato l’arrivo in Napoli e l’accoglimento qui avuto dalle monache greche; come parimente quelle collocate tra’ finestrini, che sono pur de’ fatti della vita di san Gregorio; quelle dei piccioli scompartimenti sopra gli archi, le altre della cupola, e quelle infine del coro grande, che figurano storie di san Benedetto, son tutte di mano del Giordano. Ed è a notare, che, dei tre quadri sulla porta, in quello che è a sinistra dell’osservatore, nel volto dell’uomo in atto d’indicare un luogo alle monache arrivate al lido in una barca, il pittore dipinse sé medesimo dell’età di circa cinquant’anni, quanti allora ne contava.
Dietro l’altar maggiore, che è costrutto con disegno di Dionisio Lazzari, mirasi la gran tavola dell’Ascensione del Signore, opera di Bernardo Lama. Nella prima cappella del lato destro della chiesa è il quadro dell’Annunziata di bel colorito, dipinto da Pacecco De Rosa. La terza cappella è dedicata a san Gregorio Armeno, ed è più grande e meglio ornata delle altre; sull’altare, in mezzo a due colonne di rosso di Francia, si vede un assai pregevol dipinto di Francesco di Maria, e rappresenta il santo vescovo assiso e corteggiato dagli angeli; su i muri laterali è figurato in due composizioni il Santo, mentre se gli fa d’avanti tutto umiliato il re Tiridate col viso trasformato in porco; e nell’altra, nel momento di esser tirato fuora del lago di Ararat, dove era stentatamente vissuto per quattordici anni: questi due quadri, dipinti con robustezza e verità di colorito e con bell’effetto di luce, sono usciti dal pennello di Francesco Fracanzano, discepolo dello Spagnoletto. Di Cesare Fracanzano, fratello del primo, son le due lunette sovrapposte a’ descritti quadri, che rappresentano due maniere di martirii dati al santo. La volta di questa cappella è divisa in più partizioni, dove in piccole figure sono istoriati vari fatti della vita di san Gregorio dallo stesso Francesco di Maria; le quali pitture a fresco richiamaron l’attenzione dello stesso Giordano, che narrasi averle molto ammirate e lodate. Nella quarta cappella, la tela della Madonna del Rosario è di Niccolò Malinconico, scolaro del Giordano. Delle cappelle del lato sinistro, la prima ha una tavola della Natività, della scuola di Marco da Siena; la terza, la tavola della decollazione del Battista, di Silvestro Morvillo, detto il Bruno; e la quarta, una tela, in che è dipinto san Benedetto, adorante la Vergine che apparisce dall’alto, attribuita allo Spagnoletto.
Nel mattino del 3 di marzo 1443, essendo giorno di domenica, re Alfonso I d’Aragona cinse il capo del suo figliuolo Ferrante d’un cerchio d’oro, e posegli nella man destra una spada ornata di gemme, confermandolo in tal guisa Duca di Calabria e suo successore nel regno, siccome un giorno avanti era stato acclamato dal general parlamento nella sala del Capitolo in San Lorenzo. Una tal solenne cerimonia fu compiuta con regal pompa, in presenza de’ baroni e di tutta quanta la corte del re, nell’antica chiesa già demolita, in cui si è fatta menzione poc’anzi.
In quella stessa chiesa conservavansi fino al 1574 le sepolture delle monache, e le ossa d’altri defunti, in monumenti che rimontavano fino alle primitive età del monastero, siccome risulta dalla cronaca di donna Fulvia Caracciolo, una delle mie antenate e monaca nel detto monastero, vissuta intorno all’epoca in cui venne introdotta la clausura. Commovente è la descrizione ch’essa ci lascia del trasferimento delle surriferite reliquie dalla chiesa antica a luogo più sicuro, avvenuto sotto l’abbadessato di Lucrezia Caracciolo.
«Restavano» scrive essa «solo nella chiesa le sepolture, nelle quali erano posti i corpi morti delle sorelle, e d’altri defunti: e perché rimanevano scoverte, pungeva a noi il core estremo dolore, avvenga che non havevamo luoco atto, dove potessimo riserbare l’osse de’ nostri antecessori, tanto più che di fresco erano morte alcune, che a volerle tor via, poiché erano i corpi jntieri, n’inducevano a tanto ramarico, che di pietà ogn’una di noi si sentiva venir meno; all’ultimo una notte, seguente a’ 20 d’ottobre di detto anno 1574, per un dare spavento et horrore alle sorelle, jo, insieme con donna Beatrice Carrafa, donna Camilla Sersale, donna Isabella, e donna Giovanna de Loffredo, chiuse prima le porte della chiesa, e, dicendo l’officio de’ morti, fecimo in nostra presenza votare tutte le sepolture, usando ogni diligenza possibile, che fossero ben nettate, e riponemmo l’ossa in un’altra cantina con quest’ordine: fecimo far tante casse de’ morti quante erano le sepolture, et havendo di quelli riposte le già dette osse, fecimo ad ognuno un scritto di fuori, acciò che si conoscessero di chi fossero».
Questo passaggio, che ho letto più volte nello stesso manoscritto, mi ha fatto ogni volta rabbrividire, pel timore che le mie ossa, destinate a restare in consegna alle mie compagne di reclusione, non subissero un giorno le medesime vicende.
Egli è pur da questa cronaca che siamo informati del vestire antico delle monache benedettine e del loro ufficiare ne’ libri longobardi: «Intorno poi al vestire che noi usavamo, dirò, che andavamo vestite di bianco; però le tuniche a modo di un sacco, a punto come sono quelli che portano oggidì le donne vidue, ma di panni fini e bianchissimi; in testa portavamo una legatura greca, ornata con molta modestia; leggevamo a’ libri longobardi, e perciò la maggior parte della vita spendevamo ne i divini uffici, per esser in quei tempi assai lunghi e da noi con molta solennità celebrati. Le moniche ch’entravano in questa religione in tre diverse giornate, usavano tre modi di cerimonie. Primieramente si monacavano per mano dell’abbadessa, un giorno dopo dette “le Vespere”, ove ne troncava le trezze. Dopo alcuni mesi, o anni, secondo l’età, pigliavano il secondo ordine, ch’erano alcune dignità nel coro. Il terzo ordine si pigliava nell’età perfetta, da quindici anni in su, e nel pigliar questo ordine diceva primariamente la messa dello Spirito Santo; e mentre quella si celebrava di nuovo, ne tornavamo a tagliare i capelli. In questa guisa cavavamo nella fronte una ghirlanda de capelli, la quali partita in sette fiocchi, nell’estremo di ciascun di quelli l’abbadessa poneva una ballotta di cera bianca e così stavamo finché si celebrava; ma poi finita la messa, la medesima madre tagliava i fiocchi e copriva la fronte d’un bianco velo, e ne ponevamo una veste negra sopra la bianca che fino a quel tempo portavamo, e la negra era più corta della bianca mezzo palmo, senza la quale non era lecito a veruna di comparir nel coro nei giorni festivi. Questa veste adunque era la prerogativa che ne donava la voce attiva e passiva, e ci faceva partecipe de i beni del monastero. Questa medesima veste ne vestivamo ne i giorni estremi di nostra vita, con la quale si moriva e si andava alla sepoltura. I giorni feriali si ufficiava in coro con un manto nero, senza di cui non si poteva dire un picciolo verso in quel loco, e questo s’osservava tra noi in quel tempo». Malgrado questi rigori, vero è che le monache di quel tempo andavano liberamente alle ville e possessioni del monastero per trattenervisi parecchie settimane, uscivano dalla mattina alla sera, previa licenza della badessa, e per giorni ed anche mesi rimanevano in casa dei loro parenti, siccome fino ai giorni nostri, ad onore dell’ordine monastico, è praticato ne’ chiostri della chiesa greca, presso la quale l’autorità de’ canoni tridentini non è riconosciuta.
Sono custodite nel santuario del monastero parecchie reliquie di santi e martiri, cui le monache e la volgare superstizione attribuiscono la virtù di operare miracoli. Tranne il capo di san Gregorio l’Illuminatore, che vuolsi importato dalle profughe greche, vi sono pure la testa di santo Stefano e quella di san Biagio, coverte di argento; parte del legno della santa Croce; due bracci, uno di san Lorenzo e l’altro di san Pantaleone; la catena di san Gregorio Armeno e le strisce di cuoio con cui il Santo fu battuto: entrambi oggetti che, per prerogativa soprannaturale, sanano gl’indemoniati; il sangue di santo Stefano e quello di san Pantaleone, il quale, se perpetuamente è liquefatto, pure non si fa vedere in tre diversi colori, siccome quello del medesimo martire che è venerato in Roma nella chiesa di Santa Maria in Vallicello e nella cattedrale d’Amalfi. Questo santo gabinetto di anatomia dà motivo a feste, che non mancano d’essere periodicamente segnalate da fatti miracolosi.
Vastissimo è il monastero costruito intorno alla chiesa. Entrandovi dalla porta esterna, scorgesi una comoda scalinata che mena ad una seconda porta, su cui veggonsi delle pitture a chiaroscuro di Giacomo del Po, e donde si va ne’ differenti parlatorii. Ricco poi di fregi, d’inesauste comodità, di principesca magnificenza è l’interno del monastero, albergo di donne, tanto altiere della nobile loro discendenza, da non voler accogliere per sorella nella congrega nessuna giovine, la cui prosapia non sia stata almeno aggregata in uno de’ quattro seggi di Napoli. Grande e pur bello è il dormentorio; non meno bello il refettorio, spazioso il coro che risponde nella chiesa; largo il chiostro, con in mezzo una fontana e due statue, Cristo la Samaritana, scolpite da Matteo Battiglieri; immensi e deliziosi specialmente i terrazzi elevati sopra il convento, ornati di fiori e di dipinture, donde si gode una delle più belle prospettive di Napoli, poiché da quei belvederi spazia lo sguardo su i monti e le colline circostanti, su parte della sottoposta città, sul mare, sul paesaggio ameno de’ contorni. Tranne queste costruzioni, vedonsi poi nel monastero la cappella di Santa Maria dell’Idria (corruzione del vocabolo greco Odigitria), con l’immagine bizantina della Vergine venerata sotto questo nome, con dipinture di Paolo de Matteis: cappella ridondante di sontuosità; e finalmente la sala dell’archivio, ove fra gli altri storici monumenti è conservata la cronaca summenzionata della Caracciolo, documento di non poco rilievo.
Ma è tempo di ritornare alle mie vicende.
La novità del luogo, delle persone, degli oggetti, dei costumi, mi divagò un poco. Era quello un mondo nuovo a me del tutto sconosciuto.
Durante quella prima visita al convento, m’imbattei in molte religiose per la via: tutte quante mi fecero la stessa domanda:
«Vuoi farti monaca?».
Io rispondeva di no.
A questo detto, sorridendo in atto di suprema convinzione, ripigliavano:
«San Benedetto non ti lascerà scappare, quando avrai indossate le sue lane!».
Qualche giorno prima di entrare nel monastero, era venuta la fantesca di mia zia a riferirmi, come una giovine monaca, chiamata Paolina, desiderava di farsi mia amica e confidente inseparabile, non appena avessi posto il piede nel chiostro.
Mi vi trovava intanto da più ore, né vedeva al mio fianco altre monache, che le due sorelle, da mia zia pregate di guidarmi nella visita. Chiesi a codeste quale fosse la monaca nominata Paolina: risposero essere una giovine, solita sempre a ricrearsi in compagnia di due educande. M’avvidi infatti d’averla incontrata nel mezzo di due giovinette, passeggianti nel chiostro; ed anzi mi maravigliai, che di tutte le monache fosse stata l’unica a non avvicinarmisi.
Fatti altri pochi passi lungo l’arcato corridoio del pianterreno, la incontrammo novellamente; atteggiatami d’ilarità, le mandai da lungi il saluto con un sorriso, ma parvemi d’osservare che, in risposta, essa e le sue compagne si fossero scambiate sotto voce qualche parola in tuono beffardo: questo mi mortificò assai; ma non basta.
Concettina mi domandò perché avessi voluto sapere quale monaca fosse nominata Paolina, e dove l’avessi conosciuta: raccontai dell’ambasciata ricevuta. Si rammentò allora Checchina, che essendosi quella Paolina disgustata colle sue amiche, alcuni giorni prima, mi aveva mandato tale messaggio non per altro che per indispettirle, ma che poscia, rappattumatasi con esse loro, aveva lor promesso di non mai avvicinarsi a me, essendone le educande di già gelose.
«Gelose!» esclamai stordita: «vi sono dunque gelosie fra voi!»
«Eh, pur troppo, signorina! così non ve ne fossero!» risposero le sorelle in coro.
«Misericordia!» soggiunsi: «ci sarà anche la discordia, inseparabile dalla gelosia».
Strana infatti mi sembrò la gelosia fra donne, stranissimo e volgare il pettegolezzo della monaca Paolina, pestifera la discordia in una casa ermeticamente chiusa e non beneficata dagli influssi della rimanente umanità. Da quel primo sintomo di corruzione mi accorsi che avea da far con donne, le quali, benché nobilissime per nascita, pur tuttavolta non avevano che l’educazione negativa delle loro proprie domestiche.
Io aspettava la sera con ansietà per dare libero sfogo all’inquietudine che mi rodeva, credendo di avere una stanza tutta per me. Ma quale non fu la mia sorpresa nel vedere il mio letto collocato nella camera stessa della zia badessa, con al fianco un terzo letto destinato alla sua conversa! Mi veniva pure intercettato il conforto della solitudine e delle lagrime!
Mentre mia zia spogliavasi recitando delle preghiere sotto voce, io dovetti soffrire il tormentoso interrogatorio della conversa.
Questa donna, Angiola Maria di nome, aveva 32 anni circa, era d’una costituzione ferrea, di voluminosa corporatura; tarlata dal vaiuolo, con bocca larghissima e denti neri; a questo insieme disgustevole aggiungeva, ora un riso agro e smodato, ora una cupa fissazione, con un rotar senza posa di due occhi squilibrati che sembravano pronti a balzare fuori dell’orbita. D’altronde scortese, disattenta colla mia vecchia zia, e molto petulante, allorché questa interrompeva il suo eterno cicaleccio con qualche rimbrotto.
Finalmente si pose in letto, e prese sonno per lasciarmi sola coi miei tristi pensieri, sola nel mezzo d’un silenzio, da altro rumore non turbato che dall’isocrona battuta d’un orologio a pendolo.
Lo era di poco addormentata, vinta più dall’oppressione morale che dal sonno, quando sul far del giorno fui svegliata da Angiola Maria che voleva sapere da me se io voleva assistere alla prima o alla seconda messa.
«Ormai sono desta» risposi traendo un sospiro: «assisterò a quella messa che piacerà a te».
La conversa mi diè mano a vestirmi, non cessando sempre di ciarlare: poi, presami confidenzialmente per la mano, nel modo che è menato un cieco, mi fece scendere al comunichino, dove trovai riunite parecchie monache nell’atto d’ascoltare la messa e di comunicarsi.
Alle 10 venne mia madre: la ritrovai assisa nel parlatorio.
Al primo vederla proruppi in pianto stemperato. Le dissi essere infelicissima in un luogo, la cui inoperosa e stupida reclusione era, a parer mio, più insoffribile della stessa prigionia: tremendo martirio per me dover esser quello di convivere con gente non meno ignorante che ineducata: che già parlavano di farmi monaca: ch’io presentiva di dover perdere la salute, com’era in procinto di perdere la libertà, dovendo dipendere finanche dal capriccio della conversa di mia zia, la quale mi voleva far alzare prima di giorno, per trattenermi un’ora in chiesa, esposta ad un freddo insopportabile, ad un disagio che m’avrebbe fatta prendere a noia la preghiera stessa.
Stava per rispondermi la madre mia, quando entrò la portinaia, ed in seguito accorsero altre monache per salutarla. Dopo di avere scambiati alcuni termini di cortesia, diss’ella di voler andare ad ascoltare la messa in San Lorenzo, e che più tardi sarebbe ritornata. Uscì dunque del parlatorio, ed io, attendendola, mi trattenni fuori del corridoio, immersa nel sentimento dell’abbandono, in cui slanciata mi aveva una dura fatalità.
Scorse un’ora, un’ora e mezza, ne scorsero due, mentre io misurava a passi lenti il pavimento del corridoio, e frattanto non la vedeva ritornare. Dolente del suo ritardo, mi volsi alla portinaia, pregandola di mandare alla vicina chiesa di San Lorenzo una delle tante donne che ne stavano oziose all’atrio del monastero, per sapere ragione che impediva mia madre di ritornare. La portinaia, presami la mano, mi disse:
«Abbi pazienza, cara mia.., per amore o per forza bisogna trangugiare questo calice...».
«Di qual calice parli?» le chiesi spaventata, e col presentimento di qualche nuova sventura. «Ti dico che mia madre tarda a tornare, e vorrei conoscerne il perché».
«Inutilmente l’aspetti».
«Perché?»
«Tua madre è già partita alla volta di Reggio».
Se la portinaia non mi avesse sostenuta pel busto, sarei caduta in terra.
Per lunga pezza restai pietrificata. Ben sapeva io che la madre doveva lasciarmi, ma perché mai partiva l’indomani della mia chiusura? perché partiva senza avvertirmene?
I miei nervi, scossi già di troppo da tanti dispiaceri, non poterono resistere a quest’ultimo colpo. Fui assalita da convulsioni.
Quand’ebbi ricuperati i sensi e riaperti gli occhi, mi vidi circondata da uno stuolo di monache, di converse, di educande, tutte straniere a me, tutte intente a pascere l’ozio, la curiosità, l’apatia, proprie alla loro condizione, nello spettacolo del mio abbattimento. Chi bisbigliava di qua, chi commentava di là, chi dall’altra parte componeva il viso al sarcasmo; non una sola di esse che mi volgesse un accento di sincera carità. Il medico Ronchi, che allora entrava nella porteria, essendo uno dei curanti della comunità, mi fece somministrare pronti rimedi. La febbre, che mi sopravvenne, mi confinò in letto per più d’una settimana.
Quando il destino è avverso, concatenate vengono le disgrazie. Di lì ad un mese incominciai a persuadermi ch’era pur troppo reale anche l’abbandono di Domenico. Nutriva sino allora in quel mio sepolcro la dolce speranza, non solamente di ricevere qualche sua lettera, ma sì ancora di vederlo ritornato in Napoli, e farsi il mio liberatore. Se uguale al mio era l’affetto suo, se generosi sentimenti albergavano nel petto suo, se la voce dell’umanità gli favellava in cuore, se la reminiscenza della mia verace e costante devozione poteva nell’animo suo più che il vile interesse, come avrebb’egli tollerato ch’io cadessi vittima della giuratagli fedeltà?
Quante volte guardai dal coro della chiesa per vedere se vi era! Quante volte dall’alto dei belvederi con febbrile ansietà slanciai lo sguardo in cerca di lui lungo le vie circonvicine! Spesso, delusa dalle sembianze, dall’andatura, dal vestiario di chi parevami che gli somigliasse, mi sentii in procinto di svenire, credendo che giunto fosse il momento del mio riscatto.
Ma, ohimè! né egli direttamente m’indirizzava due linee, né mia madre nelle sue lettere mi faceva motto di lui. Vedeva di tratto in tratto Giuseppina, ma la presenza di questa diletta sorella non facevi ogni volta che aumentare le cagioni del mio dolore. L’infermità alla gamba, provocata dalla caduta, erasi col cambiamento dello stato dichiarata incurabile, talché, per muoversi, la misera era costretta di appuntellarsi alle gruccie.
Veniva pur talvolta a porgermi pietoso conforto il generale Salluzzi, cui tributo figliale gratitudine. Gli altri parenti, l’amante, gli amici, non si rammentavano più dell’orfana. Sarebbesi detto che già un abisso mi separasse dal mondo intero, a dispetto de’ concenti umani, che tuttora echeggiavano teneramente dentro l’animo mio.
Se non che, nel mezzo di tanto abbandono, una consolazione sublime rattemprò le mie pene: l’elevazione dello spirito a quel Dio della carità, che volle nascere, vivere e morire, non già per i muti orrori del deserto, né per l’inanimata solitudine, ma sibbene per la salute dell’umanità, in civile e vasto consorzio tenuta da una sola ed indivisibile legge di connessione.
Una sera di febbraio mi trovai sola sul terrazzo. I raggi del sole morente non isplendevano più che sulla cima del Vesuvio e sulle vette di Castellamare, le cui nevi ripercuotevano un chiarore, che respingeva il progresso dell’oscurità. Regnava intorno un insolito silenzio; lo schiamazzo del carnevale aveva attirate le genti ne’ centri più frequentati della città, per modo che il quartiere di San Lorenzo, ove ergesi il monastero, restava del tutto spopolato. Non giungeva all’udito mio che l’eco spirante delle popolari esultanze, siccome fragore di mare lontano.
Una commozione novella m’invase: all’aria libera, sotto l’immensa volta del firmamento mi sentii sola, è vero, come prima, ma non isolata. La voce del Signore m’appellava alla contemplazione della sua misericordia.
Piegai il ginocchio a terra, giunsi le mani, sollevai al cielo le pupille bagnate di pianto, ed invocai l’aiuto dell’Onnipossente.
«E che son io?» esclamai, rialzatami poscia e tergendo le lagrime; «che sono i miei patimenti in confronto a quelli della nazione cui appartengo? Se sotto il doppio giogo della temporale e della spirituale tirannide langue l’Italia intera, pretenderei io, atomo incalcolabile, io sola fra tanti milioni di oppressi, consumar la vita nei contenti e nella prosperità?»
(1) Napoli e sue vicinanze, Tomo I, p. 228.
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