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L’anno del noviziato fu per me un anno di calma, se non voglio dire di morale depressione. Morto il passato, estinto l’avvenire per me; le memorie un vano sogno: le speranze un delitto.
Strappata agli amici per sempre, disgiunta dai parenti, che m’era lecito rivedere una sola volta al mese, straniera per più ragioni alle stesse compagne del mio carcere, io nondimeno mi trovava, se non contenta, almeno tranquilla. Raccolto, concentrato esclusivamente in se stesso, lo spirito mio si creò poco a poco un secondo monastero dentro il monastero medesimo, dove mi trovava confinata; e nel recinto di quel recondito mio edifizio, ove traeva solitaria vita, ne sarei stata più tranquilla ancora, ancor più felice coi pochi libri, colle mie meditazioni, se le visite dei parenti non m’avessero ogni volta ricordata la perduta libertà, e se le monache col loro triviale cicaleccio, colle loro volgari gelosie non m’avessero resa la reclusione fastidiosa.
Passava molte ore nel coro data alla preghiera; la fede mi sorreggeva. Per infondere la fede a chi non l’ha, fatelo sventurato! Mi fu imposto l’incarico di ragunare le monache nel coro col suono del campanello: me ne disimpegnai sollecitamente. Il resto della giornata me lo passai o chiusa nel mio camerino, o nella stanza del noviziato, o nel conversare colla maestra delle novizie, che taciturna e paziente ascoltava la mia lettura.
Quella buona donna, attempata di circa sessanta anni, concepì viva affezione per me. Chiamavasi Marianna; ma io la chiamava zia, come le giovani usano chiamar per rispetto le maggiori di età.
Non so: era essa disgustata dei confessori, oppure non aveva avuto giammai trasporto per loro? E ben certo ch’essa biasimava gli scandali, e deplorava le laidezze che vi si facevano. Il suo modo di pensare simile al mio, e l’affezione che mi dimostrò, affezione superiore a quella che la vera zia mi portava, fecero sì, che a lei mi legassi coi vincoli d’una filiale tenerezza.
Era costume di quel monastero, che nei giorni di solennità, oppure negli onomastici della maestra o della novizia, regalasse la prima alla seconda qualche oggetto gradevole. Siccome l’amica mia era molto ricca, ed io mi trovava in ristrettezze, non percependo pensione alcuna prima di aver fornito la dote alla professione, così dessa mi faceva sempre questi doni in moneta, usando di grazia e di delicatezza impareggiabili.
Né poteva soffrire che si dicesse sul conto mio la menoma parola in disvantaggio, diretta o indiretta che fosse.
Avendo un giorno la badessa convocate le suore affine di rivolger loro un’ammonizione intorno ai gravi disordini che affliggevano la comunità, conchiuse il suo discorso, apostrofando le più giovani nel modo seguente:
«Siete voi» disse, «voi che avete rovinata la comunità! A noi altre più anziane ignoti erano altra volta i partiti, gli scismi, gli odii, le gelosie, le invidie: voi, non d’altro ricche che di egoismo e di soperchieria, voi avete intromessa nel chiostro la peste della guerra civile!»
«Togliete da questo numero la mia novizia» esclamò Marianna; «essa ha trovato già infestato il monastero; anzi, volesse il cielo che fossero tutte come lei, docili, costumate ed osservanti delle regole!».
Ahimè! la predilizione della maestra non faceva che procurarmi nemiche!
Quella che più chiaramente mi dimostrava la sua antipatia era Paolina, posta alla testa di una consorteria di educande; ella, per non so quale bisogno monastico di aver sempre qualcuno da detestare; le seconde, perché educande ed io novizia, ossia superiore a loro di un grado.
All’ottavo mese del mio noviziato quella buona maestra e compagna cadeva gravemente malata: era destinato che di breve durata fosse la mia tranquillità.
Io aveva sempre notato il colore infermiccio del suo sembiante, ma sì io che le altre ignoravamo il genere di malattia da cui era apparentemente afflitta. La febbre ardente che la pose in letto, manifestossi complicata con sintomi sinistri. Sin dal primo giorno la malattia, benché dichiarata mortale, restò indefinibile presso i medici. Era evidente il carattere d’un morbo infiammatorio, ma per altro esenti ne sembravano i visceri, come altresì gli organi principali del corpo.
Di lì a poco perdeva la favella, perloché non potendo più chiamarmi a viva voce m’invitava col gesto ad avvicinarmele. Allora con uno strido straziante mi indicava il suo petto, in cerca d’un soccorso che non mi era dato di interpretare.
Più d’una volta, bramosa d’indovinare il desiderio di lei, mi provai d’allargare il nastrolino che alla gola dell’inferma teneva allacciata la camicia; ma una delle sue converse, colei che stava all’origliere di guardia perenne, scostandomi ognora la mano:
«È larga abbastanza» mi diceva; «non te ne incaricare».
Una fra le altre volte che l’inferma cercò smaniante di stracciarsi la camicia sul petto, parvemi di vedervi una fascia.
«Che fascia è questa?» domandai alla conversa.
«E abituata a portarla sempre» mi rispose facendosi rossa.
«Ma le opprime forse la respirazione: sciogliamola».
«No» soggiunse quella, respingendomi bruscamente la mano. «Brigatevi dei fatti vostri».
La mirai con sguardo sospettoso, e supposi che qualche fine nascosto la faceva agir così, tanto più che dal seno della moribonda esalava un fetore insopportabile.
Incapace di transigere coi sentimenti di umanità, volai tosto in traccia dell’infermiera, cui dissi far di mestieri avvertire il medico, che desse l’ordine di toglier quella fascia dal petto.
L’ordine fu eseguito, malgrado le lagnanze della conversa e degli sguardi in cagnesco che a me lanciava; dal che risultò che un orribile cancro aveva ròsa metà del seno. Il dottor Lucarelli che in seguito la visitò, saputo il fatto, disse sdegnato alla conversa, come, per aver occultato il vero male, aveva commesso un omicidio colposo.
Ben frivolo d’altronde era il motivo per cui sì l’inferma che la conversa avean fatto di quel morbo un mistero. Temeva la mia maestra che, discoperta la sua malattia, le monache, sia per ischifo, sia per timor di infezione, non avessero proibito che la sua biancheria si fosse lavata nel bucato comune. La conversa d’altra parte percepiva da lei un salario speciale, acciocché ne mantenesse il segreto.
Il giorno appresso rese l’anima a Dio. Semplicissimi sono i funerali delle suore. Nel monastero si entra al suono di bande militari e allo scoppio di mortaletti; nell’oscura tomba si scende col conforto di semplici formalità. Costei mi aveva tenuto luogo di madre; nell’atto di deporre la sua spoglia mortale nella fossa, chiesi ed ottenni il permesso di darvi mano anch’io. Sia per sempre benedetta la sua memoria!
Per lo spazio di due mesi fece le veci di maestra la stessa badessa. Ella pure nutriva grande affezione per me, lo che per altro non fece che raddoppiare la gelosia delle giovani monache e delle educande. Al termine di questo periodo, maestra fu creata un’altra Caracciolo, donna sessagenaria, ma frivola, astuta, simulatrice e oltremodo fanatica per i preti. Costei, benché pienamente consapevole degli scandali arcani del confessionale e del comunichino, pure, da egregia istitutrice che la era, m’imponeva la quotidiana confessione. Il canonico dal canto suo mostravasi lieto nel vedermi più tranquilla di spirito; se non che, mentre io affermava non essere quella mia tranquillità che rassegnazione ad un fatto irrimediabile, egli ostinavasi a sostenere che fosse vera vocazione.
Prossimo era frattanto a spirare l’anno del noviziato, e il giorno della professione si avvicinava. Mi abbisognavano a quest’uopo ducati 1800 per la dote, e settecento altri per le spese della funzione, dei quali, tanto nella prima che nella seconda cerimonia, 80 ne prendeva a titolo di dono il confessore, ed un’altra analoga porzione veniva riservata per complimento alle monache. Tutto insieme computato, 3000 scudi. Quanti milioni di dote al Divino ed umile maestro dei dodici pescatori!
Era superiore alle forze della mia famiglia la detta somma. Sperai di nuovo in qualche favorevole eventualità; ma per non lasciarmi aperto neanche questo varco, il Capitolo condiscese a prendermi con minor dote, lo che mi recò sommo dispiacere, conoscendo fra le altre cose di quante e quali mortificazioni era abbeverata un’altra, perché fattasi monacare senza dote alcuna.
Non andò guari che ne sperimentai le amare conseguenze.
Una monaca, per nome Teresa e sorella della summenzionata Paolina, si mise in capo di farmi sloggiare dal gabinetto ch’erami stato ceduto dalle zie, col pretesto che alla dote mia non fosse analoga quell’abitazione. La signora Teresa, orgogliosa e prepotente anzi che no, credeva che il suo volere non dovesse incontrare ostacolo di sorta. Udito il mio rifiuto, cominciò a guardarmi biecamente, poi mi tolse il saluto, finalmente cessò pur di parlarmi; la sua sorella mi odiò viemaggiormente e le altre monache della giovine consorteria fecero a gara d’imitarne l’esempio.
Un giorno m’abbattei nel dormentorio colla conversa delle due sorelle; quella cameriera ebbe l’impertinenza di fermarmi:
«Avete avuto l’ardire» mi disse, gesticolando non altrimenti che un lazzarone dell’infima classe, «avete avuto l’ardire di negare alla mia signora il domandatovi camerino! Sapete voi ch’essa e le sue sorelle, avendo portato in questo stabilimento, non una o due, ma ben quattro doti, e non già scarse, ma intere, sono padrone di questo monastero più che non è qualsivoglia altra monaca? E voi, figlia d’un soldato, venuta qui dentro senza mezzi di fortuna, senza danaro contante, voi, ammessa alla professione per atto di carità, voi ardite negare il camerino alla mia signora!».
Mi tacqui per rispetto a me medesima, benché sapessi non esser le padrone di quella conversa che sorelle di un semplice capitanuccio di reggimento; e che le Caracciolo-Forino avevano, sin dalla fondazione di San Gregorio, introdotto centinaia di doti nel monastero. Però, non potei trattenermi dal riferire a mia madre l’accaduto; al quale rapporto essa mi promise che avrebbe cercato di accomodare l’argomento della dote in modo più confacevole ai pregiudizi delle monache. Ne feci pure in privato qualche cenno alla badessa.
«Che posso farvi, figlia mia?» rispose essa. «Dall’altrui cattiveria salvatevi pur voi, come Dio vi ispirerà! Questo soltanto posso confidarvi che, se per vivere nel mondo di fuori, ci vuole prudenza come tre, qui dentro, credetemi, ce ne vuole come trenta. Nel mondo, le passioni, facili a dissiparsi, sono pur facili a lasciarsi maneggiare; ma, chiuse, compresse, condensate dentro questo vaso angusto, esplodono talora con siffatta violenza, da paralizzare l’intrepidezza e i calcoli del più insigne diplomata. A garantirvene, dunque, figlia mia, vogliate pur voi armarvi di un tantino di ipocrisia! C’è mensa senza sale? Del pari, senza l’ipocrisia non si campa. Seguite questo mio consiglio, ve ne troverete contenta».
Col consenso dei superiori fu pregato un mio parente di rilasciare a mio favore un omologo di ducati 1000, di cederlo al monastero per compimento della somma di ducati 1800, e finalmente di obbligarsi a pagare ogni anno ducati 50 d’interesse. Accomodata la faccenda così, e fatti i rimanenti apparecchi, si destinò il primo giorno d’ottobre alla funzione dei miei voti, giorno anniversario della mia vestizione.
Dovetti interrompere del tutto le private letture, ed abbandonarmi per più settimane alle pratiche di consuetudine. Nei dieci giorni che precedettero quello, mi furon dati gli esercizi spirituali, ed il canonico predicò al parlatorio.
Dicono i preti la professione esser un secondo battesimo che lava tutti i precedenti peccati; la donna che morisse al momento di pronunziare i voti monastici, andrebbe difilato in paradiso, nello stesso modo che fa l’anima del bambino morto subito dopo il battesimo.
Lettore accorto, traete da per voi solo le applicazioni pratiche di tale dottrina!
Pretendono eziandio i preti, che qualunque grazia si richieda in quel momento, Iddio è forzato a concederla. Domandai due grazie in quel momento: il sentimento salutare della mia vocazione monastica, ed il risanamento della povera Giuseppina. Non ottenni né l’una né l’altra. Giuseppina passò, di lì a poco, a miglior vita, ed io col tempo mi diedi in preda alla disperazione.
Parlando delle dottrine dei confessori nell’interno del monastero, non passerò in silenzio una pratica di espiazione, alla quale le monache di San Gregorio attribuiscono infallibile virtù. Havvi al lato destro del comunichino una scala magnifica di marmo, chiamata la Scala Santa, che è stata l’oggetto di una bolla pontificia. Tutti i venerdì del mese di marzo, la comunità intera, cominciando dalla badessa fino all’ultima conversa, è nell’obbligo di salire quella scala colle ginocchia, recitando una prece ad ogni gradino. Coll’adempimento di questa pratica si guadagna a ciascun passo una nuova indulgenza, insino a che, pervenuta all’alto della scala, sia la monaca purgata completamente da qualunque peccato d’intenzione o di fatto; e ben s’intende che il direttore spirituale del confessionale, interprete della bolla d’indulgenza, non è mai lento ad applicare alla coscienza delle sue penitenti il portentoso Toties Quoties. Laonde, se pel lavacro della professione spariscono tutti indistintamente i peccati commessi durante l’educandato ed il noviziato, la Scala Santa è ancora lì per nettare più volte all’anno il velo da ogni macchiarella avvenuta dal giorno della professione in poi, e sino al limitar della vecchiaia.
Una parola ancora intorno agli esercizi spirituali. L’ammissione a’ voti richiede un preventivo esame; quest’esame della vocazione lo subii dal vicario generale della Chiesa napoletana.
È stato in origine istituito per esplorare il libero arbitrio della novizia; ma, come tutto degenera in questo mondo, quell’esame non è più che una mera formalità. Ecco alla sfuggita un saggio delle oziose interrogazioni rivoltemi:
«Se dal palazzo reale vi pervenisse l’invito ad una festa da ballo, e dalla superiora otteneste il permesso d’uscita, vi sentireste tentata di andarvi?».
Risposi subito di no.
«Se in questo momento, almeno, si presentasse una carrozza con quattro bellissimi cavalli e splendido equipaggio, e foste invitata a fare una passeggiata lungo la riviera di Chiaia, ne uscireste?».
Risposi del pari negativamente.
«Se alla morte di una donna regnante venisse per avventura offerta a voi la sovranità, rinunziereste, per un serto effimero e periglioso, all’alto onore d’esser chiamata sposa del Figliuolo di Dio?».
Non so però quello che avrei risposto, se invece mi avesse domandata:
«Il vostro cuore è morto all’amore?»
«Se il vostro amante vi si buttasse ai piedi e vi giurasse di condurvi oggi stesso all’altare, esitereste ad uscire?».
L’interrogatorio schiva con esimia destrezza quest’arcipelago di scogli, e naviga soltanto nel pelago imperturbato delle inezie.
Ad evitare il caso che la donzella palesi in quell’esame l’aborrimento suo allo stato che ha poc’anzi abbracciato per violenza dei parenti e per sobillamento del confessore e per amorosa disperazione, la diplomazia clericale decreta di strappare sull’istante lo scapolare alla giovinetta che sdrucciolato avesse in simili confessioni, e di sfrattarla dal chiostro nell’intervallo di 24 ore dicendole:
«Vattene colla gente perduta! Indegna sei di convivere colle spose di Gesù Cristo!».
Questo duro insulto, che nessuna ha il coraggio di affrontare, rende vano lo sperimento del noviziato e fa sì che la donzella si trovi moralmente vincolata sin dal momento che ha preso il velo.
Venne alfine l’ultimo e definitivo giorno.
La mattina del l ottobre presentossi primo il canonico, che mi trattenne nel confessionale dalle 7 fino alle 11, ora in cui doveva darsi principio alla funzione.
A poco a poco la chiesa si riempì di invitati: ne fu stipato perfino il portico. V’erano parecchi distinti personaggi, fra i quali un principe reale di Danimarca (attualmente regnante), condottovi dal general Salluzzi. Egli viaggiava da incognito, compiva appena il quarto lustro, ed era d’un’avvenenza peregrina. Tanto il generale che il principe, indossavano l’abito di gala, e portavano la fascia di San Gennaro.
Dal cardinale Caracciolo fu cantato il pontificale, terminato il quale, gl’invitati rifluirono affollatissimi vicino al comunichino, ove io m’avanzava, fiancheggiata da quattro monache, con in mano delle fiaccole accese.
Due di esse mi presentarono svolta una pergamena, portante in lingua latina la formula del giuramento, contornata da immagini di Santi in acquerello, e da indorati arabeschi.
Doveva leggerla ad alta voce: la voce mi mancava.
Incominciai a leggerla sommessamente: m’intesi dire: «Più forte!».
Feci uno sforzo per alzar la voce, e pronunziare i quattro voti castità, povertà, ubbidienza e perpetua clausura…. La voce intoppò, e dovetti per un momento soffermarmi.
In quel momento appunto, la candela accesa, che una delle monache teneva, scappatale di mano, cadde in terra e si spense. Singolare augurio!
Finita la lettura, vi apposi la propria firma, come fecero pure la badessa ed il cardinale.
Frattanto nel mezzo del comunichino eravi disteso a terra un tappeto. Mi fecero coricare boccone su di quello, quindi mi coprirono tutta con una nera coltre mortuaria, portante nel mezzo un cranio ricamato. Quattro candelieri con torce ardevano a’ quattro lati: la campana andava suonando lugubremente i tòcchi dei morti, cui ad intervalli rispondevano alcuni gemiti, partiti dal fondo della chiesa.
Poco appresso, il cardinale, voltosi verso di me, mi evocò tre volte colla seguente apostrofe: «Surge, quae dormis, et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus!» cioè: O tu, che dormi nella morte, déstati! Iddio t’illuminerà!
Alla prima invocazione le monache mi scovrirono dal mortuario drappo: alla seconda m’inginocchiai sul tappeto; alla terza balzai in piedi e m’appressai al portello del comunichino.
Un’altra frase latina, non meno mistica di quello che lo sia la precedente, mi percosse l’udito: «Ut vivant mortui, et moriantur viventes». La lingua morta del Lazio chiama tuttora morte la vita sociale: la lingua di Dante e dell’Italia rigenerata chiama al contrario morte la monastica inerzia.
Alfine il cardinale benedisse la cocolla benedettina, che indossai sopra la tonaca, e poscia mi comunicò. Vennero allora a baciarmi prima la badessa, poi le monache tutte per ordine gerarchico; e, dopo una breve predica, la funzione terminò.
Allora gl’invitati salirono al parlatorio, dove furono serviti di dolci e rinfreschi. Per aprir la porta e farmi ricevere le solite congratulazioni si aspettò che mi fossi un poco rasserenata. Intanto, per mezzo del generale il principe di Danimarca mi domandò se era contenta d’essermi fatta monaca: alla mia risposta affermativa il suo volto si compose all’incredulità.
Volle osservare la mia cocolla; era di lana nera con lunghissimo strascico, e larghe maniche: ultima ricordanza del monacato di madama di Maintenon.
Usano le monache offrire un mazzo di rose artificiali al cardinale, ed un altro a ciascheduno dei vescovi che hanno assistito al pontificale. Ne presentai pur uno al principe, che accolse il dono con gentilezza.
«Rose morte da una morta» disse a S. A. il mio benefattore.
«Andiamo, generale» rispose colui: «Non reggo più nel vedere questa giovane, tanto barbaramente immolata».
Uscita la gente, i ferrei cancelli del monastero tornarono a stridere su’ loro cardini. D’allora in poi, mi separava dal mondo un baratro, secondo ogni apparenza, insuperabile.
Non doveva più avere né madre, né sorelle, né parenti, né amici, né sostanza alcuna; aveva abdicata perfino la mia personalità.
Eppure nel fondo dell’animo mio sentiva vivo e palpitante ancora il sentimento, che mi muoveva a convivere, idealmente almeno, co’ miei simili.
Aveva fatto alla comunità il sacrifizio della mia persona, ma non già quello della mia ragione, che è un diritto inalienabile. Più alta di san Benedetto imperava nella mia coscienza la voce di Gesù Cristo, il cittadino dell’universo, il distruttore delle sette, delle caste, degli associamenti parziali, il rinnovatore della famiglia, della nazione, dell’umanità, riunite in una sola legge d’amore e di conservazione.
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La professione
La professione
L’anno del noviziato fu per me un anno di calma, se non voglio dire di morale depressione. Morto il passato, estinto l’avvenire per me; le memorie un vano sogno: le speranze un delitto.
Strappata agli amici per sempre, disgiunta dai parenti, che m’era lecito rivedere una sola volta al mese, straniera per più ragioni alle stesse compagne del mio carcere, io nondimeno mi trovava, se non contenta, almeno tranquilla. Raccolto, concentrato esclusivamente in se stesso, lo spirito mio si creò poco a poco un secondo monastero dentro il monastero medesimo, dove mi trovava confinata; e nel recinto di quel recondito mio edifizio, ove traeva solitaria vita, ne sarei stata più tranquilla ancora, ancor più felice coi pochi libri, colle mie meditazioni, se le visite dei parenti non m’avessero ogni volta ricordata la perduta libertà, e se le monache col loro triviale cicaleccio, colle loro volgari gelosie non m’avessero resa la reclusione fastidiosa.
Passava molte ore nel coro data alla preghiera; la fede mi sorreggeva. Per infondere la fede a chi non l’ha, fatelo sventurato! Mi fu imposto l’incarico di ragunare le monache nel coro col suono del campanello: me ne disimpegnai sollecitamente. Il resto della giornata me lo passai o chiusa nel mio camerino, o nella stanza del noviziato, o nel conversare colla maestra delle novizie, che taciturna e paziente ascoltava la mia lettura.
Quella buona donna, attempata di circa sessanta anni, concepì viva affezione per me. Chiamavasi Marianna; ma io la chiamava zia, come le giovani usano chiamar per rispetto le maggiori di età.
Non so: era essa disgustata dei confessori, oppure non aveva avuto giammai trasporto per loro? E ben certo ch’essa biasimava gli scandali, e deplorava le laidezze che vi si facevano. Il suo modo di pensare simile al mio, e l’affezione che mi dimostrò, affezione superiore a quella che la vera zia mi portava, fecero sì, che a lei mi legassi coi vincoli d’una filiale tenerezza.
Era costume di quel monastero, che nei giorni di solennità, oppure negli onomastici della maestra o della novizia, regalasse la prima alla seconda qualche oggetto gradevole. Siccome l’amica mia era molto ricca, ed io mi trovava in ristrettezze, non percependo pensione alcuna prima di aver fornito la dote alla professione, così dessa mi faceva sempre questi doni in moneta, usando di grazia e di delicatezza impareggiabili.
Né poteva soffrire che si dicesse sul conto mio la menoma parola in disvantaggio, diretta o indiretta che fosse.
Avendo un giorno la badessa convocate le suore affine di rivolger loro un’ammonizione intorno ai gravi disordini che affliggevano la comunità, conchiuse il suo discorso, apostrofando le più giovani nel modo seguente:
«Siete voi» disse, «voi che avete rovinata la comunità! A noi altre più anziane ignoti erano altra volta i partiti, gli scismi, gli odii, le gelosie, le invidie: voi, non d’altro ricche che di egoismo e di soperchieria, voi avete intromessa nel chiostro la peste della guerra civile!»
«Togliete da questo numero la mia novizia» esclamò Marianna; «essa ha trovato già infestato il monastero; anzi, volesse il cielo che fossero tutte come lei, docili, costumate ed osservanti delle regole!».
Ahimè! la predilizione della maestra non faceva che procurarmi nemiche!
Quella che più chiaramente mi dimostrava la sua antipatia era Paolina, posta alla testa di una consorteria di educande; ella, per non so quale bisogno monastico di aver sempre qualcuno da detestare; le seconde, perché educande ed io novizia, ossia superiore a loro di un grado.
All’ottavo mese del mio noviziato quella buona maestra e compagna cadeva gravemente malata: era destinato che di breve durata fosse la mia tranquillità.
Io aveva sempre notato il colore infermiccio del suo sembiante, ma sì io che le altre ignoravamo il genere di malattia da cui era apparentemente afflitta. La febbre ardente che la pose in letto, manifestossi complicata con sintomi sinistri. Sin dal primo giorno la malattia, benché dichiarata mortale, restò indefinibile presso i medici. Era evidente il carattere d’un morbo infiammatorio, ma per altro esenti ne sembravano i visceri, come altresì gli organi principali del corpo.
Di lì a poco perdeva la favella, perloché non potendo più chiamarmi a viva voce m’invitava col gesto ad avvicinarmele. Allora con uno strido straziante mi indicava il suo petto, in cerca d’un soccorso che non mi era dato di interpretare.
Più d’una volta, bramosa d’indovinare il desiderio di lei, mi provai d’allargare il nastrolino che alla gola dell’inferma teneva allacciata la camicia; ma una delle sue converse, colei che stava all’origliere di guardia perenne, scostandomi ognora la mano:
«È larga abbastanza» mi diceva; «non te ne incaricare».
Una fra le altre volte che l’inferma cercò smaniante di stracciarsi la camicia sul petto, parvemi di vedervi una fascia.
«Che fascia è questa?» domandai alla conversa.
«E abituata a portarla sempre» mi rispose facendosi rossa.
«Ma le opprime forse la respirazione: sciogliamola».
«No» soggiunse quella, respingendomi bruscamente la mano. «Brigatevi dei fatti vostri».
La mirai con sguardo sospettoso, e supposi che qualche fine nascosto la faceva agir così, tanto più che dal seno della moribonda esalava un fetore insopportabile.
Incapace di transigere coi sentimenti di umanità, volai tosto in traccia dell’infermiera, cui dissi far di mestieri avvertire il medico, che desse l’ordine di toglier quella fascia dal petto.
L’ordine fu eseguito, malgrado le lagnanze della conversa e degli sguardi in cagnesco che a me lanciava; dal che risultò che un orribile cancro aveva ròsa metà del seno. Il dottor Lucarelli che in seguito la visitò, saputo il fatto, disse sdegnato alla conversa, come, per aver occultato il vero male, aveva commesso un omicidio colposo.
Ben frivolo d’altronde era il motivo per cui sì l’inferma che la conversa avean fatto di quel morbo un mistero. Temeva la mia maestra che, discoperta la sua malattia, le monache, sia per ischifo, sia per timor di infezione, non avessero proibito che la sua biancheria si fosse lavata nel bucato comune. La conversa d’altra parte percepiva da lei un salario speciale, acciocché ne mantenesse il segreto.
Il giorno appresso rese l’anima a Dio. Semplicissimi sono i funerali delle suore. Nel monastero si entra al suono di bande militari e allo scoppio di mortaletti; nell’oscura tomba si scende col conforto di semplici formalità. Costei mi aveva tenuto luogo di madre; nell’atto di deporre la sua spoglia mortale nella fossa, chiesi ed ottenni il permesso di darvi mano anch’io. Sia per sempre benedetta la sua memoria!
Per lo spazio di due mesi fece le veci di maestra la stessa badessa. Ella pure nutriva grande affezione per me, lo che per altro non fece che raddoppiare la gelosia delle giovani monache e delle educande. Al termine di questo periodo, maestra fu creata un’altra Caracciolo, donna sessagenaria, ma frivola, astuta, simulatrice e oltremodo fanatica per i preti. Costei, benché pienamente consapevole degli scandali arcani del confessionale e del comunichino, pure, da egregia istitutrice che la era, m’imponeva la quotidiana confessione. Il canonico dal canto suo mostravasi lieto nel vedermi più tranquilla di spirito; se non che, mentre io affermava non essere quella mia tranquillità che rassegnazione ad un fatto irrimediabile, egli ostinavasi a sostenere che fosse vera vocazione.
Prossimo era frattanto a spirare l’anno del noviziato, e il giorno della professione si avvicinava. Mi abbisognavano a quest’uopo ducati 1800 per la dote, e settecento altri per le spese della funzione, dei quali, tanto nella prima che nella seconda cerimonia, 80 ne prendeva a titolo di dono il confessore, ed un’altra analoga porzione veniva riservata per complimento alle monache. Tutto insieme computato, 3000 scudi. Quanti milioni di dote al Divino ed umile maestro dei dodici pescatori!
Era superiore alle forze della mia famiglia la detta somma. Sperai di nuovo in qualche favorevole eventualità; ma per non lasciarmi aperto neanche questo varco, il Capitolo condiscese a prendermi con minor dote, lo che mi recò sommo dispiacere, conoscendo fra le altre cose di quante e quali mortificazioni era abbeverata un’altra, perché fattasi monacare senza dote alcuna.
Non andò guari che ne sperimentai le amare conseguenze.
Una monaca, per nome Teresa e sorella della summenzionata Paolina, si mise in capo di farmi sloggiare dal gabinetto ch’erami stato ceduto dalle zie, col pretesto che alla dote mia non fosse analoga quell’abitazione. La signora Teresa, orgogliosa e prepotente anzi che no, credeva che il suo volere non dovesse incontrare ostacolo di sorta. Udito il mio rifiuto, cominciò a guardarmi biecamente, poi mi tolse il saluto, finalmente cessò pur di parlarmi; la sua sorella mi odiò viemaggiormente e le altre monache della giovine consorteria fecero a gara d’imitarne l’esempio.
Un giorno m’abbattei nel dormentorio colla conversa delle due sorelle; quella cameriera ebbe l’impertinenza di fermarmi:
«Avete avuto l’ardire» mi disse, gesticolando non altrimenti che un lazzarone dell’infima classe, «avete avuto l’ardire di negare alla mia signora il domandatovi camerino! Sapete voi ch’essa e le sue sorelle, avendo portato in questo stabilimento, non una o due, ma ben quattro doti, e non già scarse, ma intere, sono padrone di questo monastero più che non è qualsivoglia altra monaca? E voi, figlia d’un soldato, venuta qui dentro senza mezzi di fortuna, senza danaro contante, voi, ammessa alla professione per atto di carità, voi ardite negare il camerino alla mia signora!».
Mi tacqui per rispetto a me medesima, benché sapessi non esser le padrone di quella conversa che sorelle di un semplice capitanuccio di reggimento; e che le Caracciolo-Forino avevano, sin dalla fondazione di San Gregorio, introdotto centinaia di doti nel monastero. Però, non potei trattenermi dal riferire a mia madre l’accaduto; al quale rapporto essa mi promise che avrebbe cercato di accomodare l’argomento della dote in modo più confacevole ai pregiudizi delle monache. Ne feci pure in privato qualche cenno alla badessa.
«Che posso farvi, figlia mia?» rispose essa. «Dall’altrui cattiveria salvatevi pur voi, come Dio vi ispirerà! Questo soltanto posso confidarvi che, se per vivere nel mondo di fuori, ci vuole prudenza come tre, qui dentro, credetemi, ce ne vuole come trenta. Nel mondo, le passioni, facili a dissiparsi, sono pur facili a lasciarsi maneggiare; ma, chiuse, compresse, condensate dentro questo vaso angusto, esplodono talora con siffatta violenza, da paralizzare l’intrepidezza e i calcoli del più insigne diplomata. A garantirvene, dunque, figlia mia, vogliate pur voi armarvi di un tantino di ipocrisia! C’è mensa senza sale? Del pari, senza l’ipocrisia non si campa. Seguite questo mio consiglio, ve ne troverete contenta».
Col consenso dei superiori fu pregato un mio parente di rilasciare a mio favore un omologo di ducati 1000, di cederlo al monastero per compimento della somma di ducati 1800, e finalmente di obbligarsi a pagare ogni anno ducati 50 d’interesse. Accomodata la faccenda così, e fatti i rimanenti apparecchi, si destinò il primo giorno d’ottobre alla funzione dei miei voti, giorno anniversario della mia vestizione.
Dovetti interrompere del tutto le private letture, ed abbandonarmi per più settimane alle pratiche di consuetudine. Nei dieci giorni che precedettero quello, mi furon dati gli esercizi spirituali, ed il canonico predicò al parlatorio.
Dicono i preti la professione esser un secondo battesimo che lava tutti i precedenti peccati; la donna che morisse al momento di pronunziare i voti monastici, andrebbe difilato in paradiso, nello stesso modo che fa l’anima del bambino morto subito dopo il battesimo.
Lettore accorto, traete da per voi solo le applicazioni pratiche di tale dottrina!
Pretendono eziandio i preti, che qualunque grazia si richieda in quel momento, Iddio è forzato a concederla. Domandai due grazie in quel momento: il sentimento salutare della mia vocazione monastica, ed il risanamento della povera Giuseppina. Non ottenni né l’una né l’altra. Giuseppina passò, di lì a poco, a miglior vita, ed io col tempo mi diedi in preda alla disperazione.
Parlando delle dottrine dei confessori nell’interno del monastero, non passerò in silenzio una pratica di espiazione, alla quale le monache di San Gregorio attribuiscono infallibile virtù. Havvi al lato destro del comunichino una scala magnifica di marmo, chiamata la Scala Santa, che è stata l’oggetto di una bolla pontificia. Tutti i venerdì del mese di marzo, la comunità intera, cominciando dalla badessa fino all’ultima conversa, è nell’obbligo di salire quella scala colle ginocchia, recitando una prece ad ogni gradino. Coll’adempimento di questa pratica si guadagna a ciascun passo una nuova indulgenza, insino a che, pervenuta all’alto della scala, sia la monaca purgata completamente da qualunque peccato d’intenzione o di fatto; e ben s’intende che il direttore spirituale del confessionale, interprete della bolla d’indulgenza, non è mai lento ad applicare alla coscienza delle sue penitenti il portentoso Toties Quoties. Laonde, se pel lavacro della professione spariscono tutti indistintamente i peccati commessi durante l’educandato ed il noviziato, la Scala Santa è ancora lì per nettare più volte all’anno il velo da ogni macchiarella avvenuta dal giorno della professione in poi, e sino al limitar della vecchiaia.
Una parola ancora intorno agli esercizi spirituali. L’ammissione a’ voti richiede un preventivo esame; quest’esame della vocazione lo subii dal vicario generale della Chiesa napoletana.
È stato in origine istituito per esplorare il libero arbitrio della novizia; ma, come tutto degenera in questo mondo, quell’esame non è più che una mera formalità. Ecco alla sfuggita un saggio delle oziose interrogazioni rivoltemi:
«Se dal palazzo reale vi pervenisse l’invito ad una festa da ballo, e dalla superiora otteneste il permesso d’uscita, vi sentireste tentata di andarvi?».
Risposi subito di no.
«Se in questo momento, almeno, si presentasse una carrozza con quattro bellissimi cavalli e splendido equipaggio, e foste invitata a fare una passeggiata lungo la riviera di Chiaia, ne uscireste?».
Risposi del pari negativamente.
«Se alla morte di una donna regnante venisse per avventura offerta a voi la sovranità, rinunziereste, per un serto effimero e periglioso, all’alto onore d’esser chiamata sposa del Figliuolo di Dio?».
Non so però quello che avrei risposto, se invece mi avesse domandata:
«Il vostro cuore è morto all’amore?»
«Se il vostro amante vi si buttasse ai piedi e vi giurasse di condurvi oggi stesso all’altare, esitereste ad uscire?».
L’interrogatorio schiva con esimia destrezza quest’arcipelago di scogli, e naviga soltanto nel pelago imperturbato delle inezie.
Ad evitare il caso che la donzella palesi in quell’esame l’aborrimento suo allo stato che ha poc’anzi abbracciato per violenza dei parenti e per sobillamento del confessore e per amorosa disperazione, la diplomazia clericale decreta di strappare sull’istante lo scapolare alla giovinetta che sdrucciolato avesse in simili confessioni, e di sfrattarla dal chiostro nell’intervallo di 24 ore dicendole:
«Vattene colla gente perduta! Indegna sei di convivere colle spose di Gesù Cristo!».
Questo duro insulto, che nessuna ha il coraggio di affrontare, rende vano lo sperimento del noviziato e fa sì che la donzella si trovi moralmente vincolata sin dal momento che ha preso il velo.
Venne alfine l’ultimo e definitivo giorno.
La mattina del l ottobre presentossi primo il canonico, che mi trattenne nel confessionale dalle 7 fino alle 11, ora in cui doveva darsi principio alla funzione.
A poco a poco la chiesa si riempì di invitati: ne fu stipato perfino il portico. V’erano parecchi distinti personaggi, fra i quali un principe reale di Danimarca (attualmente regnante), condottovi dal general Salluzzi. Egli viaggiava da incognito, compiva appena il quarto lustro, ed era d’un’avvenenza peregrina. Tanto il generale che il principe, indossavano l’abito di gala, e portavano la fascia di San Gennaro.
Dal cardinale Caracciolo fu cantato il pontificale, terminato il quale, gl’invitati rifluirono affollatissimi vicino al comunichino, ove io m’avanzava, fiancheggiata da quattro monache, con in mano delle fiaccole accese.
Due di esse mi presentarono svolta una pergamena, portante in lingua latina la formula del giuramento, contornata da immagini di Santi in acquerello, e da indorati arabeschi.
Doveva leggerla ad alta voce: la voce mi mancava.
Incominciai a leggerla sommessamente: m’intesi dire: «Più forte!».
Feci uno sforzo per alzar la voce, e pronunziare i quattro voti castità, povertà, ubbidienza e perpetua clausura…. La voce intoppò, e dovetti per un momento soffermarmi.
In quel momento appunto, la candela accesa, che una delle monache teneva, scappatale di mano, cadde in terra e si spense. Singolare augurio!
Finita la lettura, vi apposi la propria firma, come fecero pure la badessa ed il cardinale.
Frattanto nel mezzo del comunichino eravi disteso a terra un tappeto. Mi fecero coricare boccone su di quello, quindi mi coprirono tutta con una nera coltre mortuaria, portante nel mezzo un cranio ricamato. Quattro candelieri con torce ardevano a’ quattro lati: la campana andava suonando lugubremente i tòcchi dei morti, cui ad intervalli rispondevano alcuni gemiti, partiti dal fondo della chiesa.
Poco appresso, il cardinale, voltosi verso di me, mi evocò tre volte colla seguente apostrofe: «Surge, quae dormis, et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus!» cioè: O tu, che dormi nella morte, déstati! Iddio t’illuminerà!
Alla prima invocazione le monache mi scovrirono dal mortuario drappo: alla seconda m’inginocchiai sul tappeto; alla terza balzai in piedi e m’appressai al portello del comunichino.
Un’altra frase latina, non meno mistica di quello che lo sia la precedente, mi percosse l’udito: «Ut vivant mortui, et moriantur viventes». La lingua morta del Lazio chiama tuttora morte la vita sociale: la lingua di Dante e dell’Italia rigenerata chiama al contrario morte la monastica inerzia.
Alfine il cardinale benedisse la cocolla benedettina, che indossai sopra la tonaca, e poscia mi comunicò. Vennero allora a baciarmi prima la badessa, poi le monache tutte per ordine gerarchico; e, dopo una breve predica, la funzione terminò.
Allora gl’invitati salirono al parlatorio, dove furono serviti di dolci e rinfreschi. Per aprir la porta e farmi ricevere le solite congratulazioni si aspettò che mi fossi un poco rasserenata. Intanto, per mezzo del generale il principe di Danimarca mi domandò se era contenta d’essermi fatta monaca: alla mia risposta affermativa il suo volto si compose all’incredulità.
Volle osservare la mia cocolla; era di lana nera con lunghissimo strascico, e larghe maniche: ultima ricordanza del monacato di madama di Maintenon.
Usano le monache offrire un mazzo di rose artificiali al cardinale, ed un altro a ciascheduno dei vescovi che hanno assistito al pontificale. Ne presentai pur uno al principe, che accolse il dono con gentilezza.
«Rose morte da una morta» disse a S. A. il mio benefattore.
«Andiamo, generale» rispose colui: «Non reggo più nel vedere questa giovane, tanto barbaramente immolata».
Uscita la gente, i ferrei cancelli del monastero tornarono a stridere su’ loro cardini. D’allora in poi, mi separava dal mondo un baratro, secondo ogni apparenza, insuperabile.
Non doveva più avere né madre, né sorelle, né parenti, né amici, né sostanza alcuna; aveva abdicata perfino la mia personalità.
Eppure nel fondo dell’animo mio sentiva vivo e palpitante ancora il sentimento, che mi muoveva a convivere, idealmente almeno, co’ miei simili.
Aveva fatto alla comunità il sacrifizio della mia persona, ma non già quello della mia ragione, che è un diritto inalienabile. Più alta di san Benedetto imperava nella mia coscienza la voce di Gesù Cristo, il cittadino dell’universo, il distruttore delle sette, delle caste, degli associamenti parziali, il rinnovatore della famiglia, della nazione, dell’umanità, riunite in una sola legge d’amore e di conservazione.
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