venerdì 29 maggio 2009

L’opera pittorica di Battistello Caracciolo


Ampliamenti dal Repertorio
Iconografico

Repertori:
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1. L’opera pittorica di Battistello. – Giovanni Battista (vedi scheda biografica) Caracciolo, detto Battistello, nacque a Napoli nel 1570 e morì nel 1635. Fu un seguace dell’opera pittorica del Caravaggio, che capitò a Napoli nel 1606, per sfuggire alle conseguenze di un omicidio compiuto a Roma. Troviamo in rete le seguenti opere di cui si redige un elenco sommario con tutte le indicazioni reperibili poste alla base del dipinto:

Sommario: 1. – 2. – 3.

1.



2.

3
Fonte.

La liberazione di San Pietro. Museo Nazionale di Capodimonte. Napoli.

martedì 26 maggio 2009

Luther Blisset: «Q», romanzo contemporaneo sulla figura di Pietro Carafa. – Lettera a Carafa del 14 maggio 1521 da Worms.

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Navigazione: PROLOGO. Fuori dall’Europa. – L’«Occhio»: Lettere del 17 maggio 1518, del 10 ottobre 1518. – PRIMA PARTE. Il Coniatore. a) Frankenhausen: Capitoli: 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7. - La dottrina, il pantano: 8. – L’«Occhio»: Lettere del 14 maggio 1521, del 27 ottobre 1521. – Capitoli: 9 - 10 - 11. - La sacca, i ricordi: 12 - 13 - 14 - 15 - 16 - 17 - 18 - 19 - 20 - 21 - 22 - 23 - 24 - 25 - 26 - 27 - 28 - 29. – L’«Occhio»: Lettere del 28 maggio 1525, del 22 giugno 1526, del 10 giugno 1527, del 17 settembre 1527, del 1 ottobre 1529.

A seguire:
– PARTE SECONDA – PARTE TERZA - EPILOGO

PRIMA PARTE
Il Coniatore
L’occhio di Carafa
(1521)
Lettere: precedente - successiva.

*

Lettera inviata a Roma dalla città di Worms, sede della Dieta imperiale, indirizzata a Gianpietro Carafa, datata 14 maggio 1521

All’illustrissimo e reverendissimo signore e padrone onorandissimo Giovanni Pietro Carafa, in Roma.

Illustrissimo e reverendissimo signore e padrone mio onorandissimo,

scrivo a Vostra Signoria a proposito di un avvenimento gravissimo e misterioso: Martin Lutero è stato rapito due giorni fa mentre faceva ritorno a Wittenberg con il salvacondotto imperiale.
Quando Ella mi ha commissionato di seguire il monaco alla Dieta imperiale di Worms non mi ha fatto parola di alcun disegno di tal genere; se c’è qualcosa che si è sottratto alla mia attenzione e che dovrei sapere, attendo con ansia che la Signoria Vostra voglia metterne a conoscenza il suo servitore. Se, come credo, le mie informazioni non erano manchevoli, allora posso affermare che una minaccia oscura e gravissima incombe sulla Germania. Pertanto ritengo essenziale comunicare a V.S. quali sono stati i movimenti di Lutero e intorno a lui nei giorni della Dieta e quale è stato il comportamento del suo signore, il Principe Elettore di Sassonia Federico.
Il martedí 16 di aprile all’ora del pranzo la guardia di città posta sulla torre del duomo ha dato a suono di tromba il segnale consueto per l’arrivo di un ospite di riguardo. La notizia dell’arrivo del monaco si era già diffusa in mattinata e molte persone gli erano andate incontro. La sua modesta vettura, preceduta dall’araldo imperiale, era seguita da un centinaio di persone a cavallo. Una grande folla ingombrava la strada, cosí da impedire al corteo di procedere speditamente. Prima di entrare all’albergo Johanniterhof tra le ali di folla, Lutero ha guardato intorno con occhi di indemoniato gridando «Dio sarà per me». A poca distanza, all’albergo del Cigno, aveva preso stanza il Principe Elettore di Sassonia col suo seguito. Fin dalle prime ore della sua residenza, cominciò un andare e venire di piccola nobiltà, borghigiani e magistrati, ma nessuno dei personaggi più importanti della Dieta ha inteso compromettersi visibilmente con il monaco. Eccetto il giovanissimo langravio Filippo d’Assia, che ha sottoposto a Lutero sottili questioni riguardanti i costumi sessuali nella Babilonica, ricevendo da questi un severo rabbuffo. Lo stesso principe Federico lo vide soltanto nelle sedute pubbliche.
Del resto non nelle sedute pubbliche del 17 e 18 di aprile si sono svolti i veri negozi, quanto nelle conversazioni private e in alcuni avvenimenti che sono accaduti durante la permanenza di Lutero a Worms. Come la Signoria Vostra già saprà, nonostante l’avversione nutrita dal giovane Imperatore Carlo nei confronti del monaco e delle sue tesi, la Dieta non è riuscita a farlo ritrattare, né a prendere i giusti provvedimenti prima che gli avvenimenti precipitassero. Questo a causa delle manovre abilmente orchestrate da alcuni misteriosi sostenitori di Lutero, tra i quali credo di poter annoverare l’Elettore di Sassonia, anche se non è possibile affermarlo con certezza assoluta, per via del carattere sotterraneo e oscuro di tali manovre.
- La mattina del 19 di aprile l’Imperatore Carlo V ha convocato gli elettori e i principi per chiedere di prendere una posizione decisa su Lutero, manifestando a essi il proprio rammarico per non aver proceduto energicamente contro il monaco ribelle fin da subito. L’Imperatore ha confermato il salvacondotto imperiale di ventun giorni a patto che il frate non predicasse durante il viaggio di ritorno a Wittenberg. Nel pomeriggio di quello stesso giorno i principi e gli elettori si sono convocati per deliberare sulla richiesta imperiale. La condanna per Lutero è stata approvato con quattro voti su sei. L’Elettore di Sassonia certamente ha votato contro, e questa è stata la sua prima e unica manifestazione aperta in favore di Lutero.
- La notte del 20 «sono stati però affissi da ignoti in Worms due manifesti: il primo conteneva minacce contro Lutero; il secondo dichiarava che 400 nobili si erano impegnati con giuramento a non abbandonare il «giusto Lutero» e a dichiarare la loro inimicizia ai principi e ai romanisti e anzitutto all’arcivescovo di Magonza.
Questo accadimento ha gettato sulla Dieta l’ombra di una guerra di religione e di un partito luterano pronto a insorgere. L’arcivescovo di Magonza, spaventato, ha chiesto e ottenuto dall’Imperatore che si riesaminasse tutta la questione, per non correre il pericolo di spaccare in due la Germania e prestare il fianco a una rivolta. Chiunque abbia affisso quei manifesti ha ottenuto quindi lo scopo di far concedere alla causa una proroga di alcuni giorni e di diffondere timore e circospezione riguardo all’eventuale condanna di Lutero.
- Il 23 e 24, dunque, Lutero è stato esaminato da una commissione nominata dall’Imperatore per l’occasione e, come forse la S.V. già saprà, ha continuato a rifiutare la proposta di una ritrattazione. Ciononostante il suo collega di Wittenberg che lo aveva accompagnato alla Dieta, Amsdorf, ha sparso la voce che si era vicini a un accordo conciliatorio tra Lutero, la Santa Sede e l’Imperatore. Perché, Signore mio illustrissimo? Io credo, ancora dietro suggerimento dell’Elettore Federico, per guadagnare altro tempo.
- Di conseguenza, tra il 23 e il 24 si è avuta una grande alternanza di mediatori per ricomporre la rottura tra Lutero e la Santa Sede, rappresentata qui a Worms dall’arcivescovo di Treviri.
- Il 25 si è tenuto un incontro privato, senza testimoni, tra Lutero e l’arcivescovo di Treviri che, come era prevedibile, ha vanificata tutta la diplomazia dei due giorni precedenti. Privatamente Lutero, come già aveva palesato durante le sedute della Dieta al cospetto dell’Imperatore, ha rifiutato «per coscienza» di ritrattare le sue tesi. Si è sancita quindi una rottura incolmabile e definitiva. In quelle ore per le strade della città correvano voci di un imminente arresto di Lutero.
- La sera dello stesso giorno, sono state notate due figure avvolte nei mantelli recarsi nella stanza di Lutero. L’albergatore li ha riconosciuti come Feilitzsch e Thun, i consiglieri del Principe Elettore Federico. Cosa è stato approntato durante quell’incontro notturno? La S.V. potrà forse trovare risposta negli avvenimenti dei giorni successivi.
- La mattina del giorno seguente, il 26, Lutero ha lasciato senza rumore la città di Worms, con una piccola scorta di nobili suoi simpatizzanti. L’indomani era a Francoforte; il 28 a Friedberg. Qui egli ha indotto l’araldo imperiale a lasciarlo proseguire da solo. Il 3 maggio Lutero ha abbandonato la strada maestra e ha proseguito il viaggio per vie secondarie, adducendo come motivazione al mutamento di itinerario una visita ai suoi parenti, presso la città di Möhra. Ha anche indotto i suoi compagni di viaggio a proseguire direttamente in un’altra carrozza. I testimoni dicono che quando ha ripreso il viaggio da Möhra era solo nella vettura, con Amsdorf e il collega Petzensteiner. Dopo qualche ora la carrozza è stata fermata da alcuni uomini a cavallo i quali hanno domandato al conducente chi fosse Lutero e, riconosciutolo, lo hanno preso con la forza e trascinato via con loro nella macchia.
Alla Signoria Vostra risulterà evidente come non sia possibile non vedere Federico, l’Elettore di Sassonia, dietro a tutto questo macchinare. Ma nel caso che Ella abbia scrupolo di correre a una troppo affrettata conclusione, mi sia consentito dunque di mettere davanti agli occhi di V.S. alcuni quesiti. Chi aveva interesse a ritardare la condanna di Lutero, tenendo aperta la diatriba? E conseguentemente chi, per rallentare la sentenza, aveva interesse a paventare la minaccia di un partito dei cavalieri pronto a difendere il monaco con la spada contro l’Imperatore e il Papa? Infine, chi aveva interesse a mettere al sicuro Lutero inscenando un rapimento, senza rivelarsi apertamente e senza compromettersi agli occhi dell’Imperatore stesso?
Ho l’audacia di credere che anche la S.V. giungerà alla conclusione del suo servitore. Si respira l’aria della battaglia, mio Signore, e la fama di Lutero cresce ogni giorno di più. La notizia del suo rapimento ha scatenato panico e agitazione indicibili. Anche chi non condivide le sue tesi, riconosce ormai in lui una voce autorevole della riforma della Chiesa. Una grande guerra religiosa è in procinto di scatenarsi. I semi che Lutero ha sparsi, rapito dall’impeto della convinzione, stanno per dare i loro frutti. Discepoli ansiosi di passare all’azione si preparano a trarre, con intrepida logica, le conseguenze dei suoi pensieri. Se la sincerità è una virtú, la Signoria Vostra mi consentirà forse di affermare che i protettori di Lutero hanno già raggiunto l’obiettivo di trasformare il monaco in un ariete contro la Santa Sede, organizzando intorno a costui un ampio seguito di popolo. E adesso, essi stanno soltanto aspettando il momento più opportuno per dar battaglia in campo aperto.
Non mi occorre a dire altro se non che bacio le mani a V.S. e a quella con tutto il cuore mi raccomando.

Di Worms, il giorno 14 di maggio 1521
il fedele osservatore di Vostra Signoria Illustrissima
Q.





(A seguire)

I Caracciolo in oltre 1000 anni di storia: n) Monache .

Versione 1.0 / 26.5.09.
Biblioteca. - Repertorio:
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Sezione: a - b - c - d - e - f - g - h - i - j - k - l - m - n -

Sulla scorta delle Memorie di Enrichetta Caracciolo, o delle ricostruzioni attendibili o meno della «Cronaca del Convento di Sant’Arcangelo a Baiano», nel loro nucleo originario attribuite a un Francesco Paolo Caracciolo, vivente agli inizi del Seicento, pare opportuno compilare un distinto Repertorio per tutte le monache di cognome Caracciolo o Carafa. Le fonti a cui attingeremo saranno le più varie e non è nostro intento principale ricostruirne la genealogia. In ogni casa, tutte le monache che troveremo nelle tavole del Fabris/Caracciolo saranno qui incluse.

Mira Caracciolo. – Fu monaca di San Gregorio intorno al 1138. Era figlia di Landolfo e di Anna Gaietana. Vedi Ambrogini tav. I.

lunedì 25 maggio 2009

Luther Blisset: «Q», romanzo contemporaleo sulla figura di Pietro Carafa. - Parte Iª cap. 8°: Wittenberg, Sassonia, aprile 1519.

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A seguire:
– PARTE SECONDA – PARTE TERZA - EPILOGO

PRIMA PARTE
Il Coniatore
La dottrina, il pantano
(1519-1522)
Capitolo 8
Wittenberg, Sassonia, aprile 1519

Città di merda, Wittenberg. Miserabile, povera, fangosa. Un clima insalubre e aspro, senza vigneti né frutteti, una birreria fumosa e gelata. Che cosa c’è a Wittenberg, se togli il castello, la chiesa e l’università? Vicoli sudici, strade piene di mota, una popolazione barbara di commercianti di birra e di rigattieri.
Siedo nel cortile dell’università con questi pensieri che affollano la testa, mangiando un bretzel appena sfornato. Lo rigiro tra le mani per raffreddarlo mentre osservo il bivacco studentesco che connota quest’ora della giornata. Focacce e zuppe, i colleghi approfittano del sole tiepido e pranzano all’aperto in attesa della prossima lezione. Accenti diversi, molti di noi vengono dai principati vicini, ma anche dall’Olanda, dalla Danimarca, dalla Svezia: rampolli di mezzo mondo accorrono qui per ascoltare la viva voce del Maestro. Martin Lutero, la sua fama è volata sulle ali del vento, anzi sui torchi degli stampatori che hanno reso famoso questo posto, fino a un paio d’anni fa dimenticato da Dio e dagli uomini. Gli eventi... gli eventi precipitano. Nessuno aveva mai sentito nominare Wittenberg e adesso arrivano sempre più numerosi, sempre più giovani, perché chi vuole partecipare all’impresa deve stare qui, nel pantano più importante di tutta la Cristianità. E forse è vero: qui si sta sfornando il pane che impegnerà i denti del Papa. Una nuova generazione di dottori e teologi che libereranno il mondo dagli artigli corrotti di Roma.
Eccolo che avanza, pochi anni più di me, la barba appuntita, magro e scavato come solo i profeti possono essere: Melantone, la colonna di sapienza classica che il principe Federico ha voluto affiancare a Lutero per dare prestigio all’università. Le sue lezioni sono brillanti, alterna citazioni da Aristotele a passi delle Scritture che può leggere in ebraico, come attingesse da un pozzo inesauribile di conoscenza. Al suo fianco il rettore, Carlostadio, l’Integerrimo, parco nel vestire, qualche anno ben portato in più. Dietro, Amsdorf e il fido Franz Günther, come cuccioli legati a un guinzaglio invisibile. Annuiscono e basta.
Carlostadio e Melantone discutono passeggiando. Negli ultimi tempi accade spesso. Si coglie qualche frase, brandelli di latino a volte, ma l’argomento resta oscuro. Lungo i muri dell’università la curiosità cresce come un rampicante: le menti giovani bramano nuove questioni su cui saggiare zanne da latte.
Si siedono su un gradino proprio di fronte a me, dall’altra parte del cortile. Con finta indifferenza capannelli di studenti prendono forma tutt’intorno. La voce efebica di Melantone mi raggiunge. Cosí accattivante in aula quanto stridula qui fuori.
- ... e dovresti convincertene una volta per tutte, mio buon Carlostadio, non ci sono parole più limpide di quelle dell’apostolo: «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite, perché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio, quindi chi si oppone all’autorità si oppone all’ordine stabilito da Dio». Questo scrive San Paolo nella Lettera ai Romani. Decido di alzarmi e di unirmi agli altri spettatori, proprio mentre Carlostadio ribatte.
- È ridicolo pensare che quel cristiano per il quale, secondo la parola dello stesso San Paolo, «la legge è morta», la legge morale data da Dio agli uomini debba obbedire ciecamente alle leggi spesso ingiuste fatte dagli uomini! Cristo dice: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». I Giudei usavano la moneta di Cesare riconoscendo l’autorità romana. Quindi era giusto che accettassero anche tutti quegli obblighi civili che non pregiudicavano quelli religiosi. In questo modo Cristo con le sue parole distingue il campo politico da quello religioso e accetta la funzione dell’autorità civile, ma solo a condizione che non si sovrapponga a Dio, che non si mescoli a Lui. Quando infatti si sostituisce a Dio non promuove più il bene comune, ma rende schiavo l’uomo. Ricorda il Vangelo di Luca: «Adorerai il Signore Dio tuo, e servirai lui solo»...

L’aria si è fatta più pesante, orecchie tese e sguardi che saltano da una parte all’altra. Si è formata un’arena, un semicerchio perfetto di studenti, come se qualcuno avesse delimitato col gesso il campo dello scontro. Günther sta in piedi, zitto, valutando da che parte converrà schierarsi. Amsdorf ha già scelto la sua: nel mezzo.
Melantone scuote la testa e strizza gli occhi accennando un sorriso magnanimo. Mostra sempre l’atteggiamento di un padre che spiega al figlio come stanno le cose. Come se la sua mente comprendesse la tua, racchiudendola, avendo già capito tutto quello che tu capirai da qui alla fine dei tuoi giorni.
Guarda compiaciuto il pubblico, ha di fronte a sé la Nuova Cristianità. Misura le parole, le pesa sulla stadera, prima di ribattere.
- Devi scavare più a fondo, Carlostadio, non fermarti alla superficie. Il senso del «date a Cesare» è ben diverso... Cristo distingue tra i due ambiti, quello dell’autorità civile e quello di Dio, è vero. Ma lo fa perché, appunto, a ciascuna delle due venga dato ciò che le spetta, giacché le due forme di autorità sono speculari. Questa è la volontà del Signore. San Paolo stesso ci ha spiegato questo concetto. Egli dice: «dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse, le tasse; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto». Inoltre, mio buon amico, se i fedeli si comportano onestamente non hanno nulla da temere dalle autorità, anzi, ne saranno lodati. Chi invece compie azioni malvagie, deve temere, perché se il sovrano porta la spada c’è un motivo: egli è al servizio di Dio per punire giustamente chi opera il male.
Carlostadio, lento, corrucciato: - Ma chi punirà il sovrano che non opera onestamente?
Melantone, sicuro: - «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina». Il Signore dice: «A me la vendetta, sono io che ricambierò». L’autorità ingiusta è punita da Dio, Carlostadio. Dio l’ha posta sulla terra, Dio può distruggerla. Non spetta a noi contrapporci a essa. E del resto, quali parole più limpide di quelle dell’apostolo: «Benedite coloro che vi perseguitano»?
Carlostadio: - Certo, Melantone, certo. Non dico che non dobbiamo amare anche i nostri nemici, ma converrai con me che dobbiamo almeno guardarci da coloro che, seduti sulla cattedra di Mosè, serrano il regno dei cieli in faccia agli uomini...
Padrebuono Melantone: - I falsi profeti, mio buon Carlostadio, quelli sono i falsi profeti... E il mondo ne è pieno. Perfino qui, in questo luogo di studio graziato dal Signore... Perché è tra i sapienti che si annida l’alterigia, la presunzione di mettere in bocca le parole al Signore per innalzare la propria fama personale. Ma Egli ci ha detto: «Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti». Noi serviamo Dio e combattiamo per la vera fede contro la corruzione secolare. Non dimenticarlo, Carlostadio.
Un colpo basso, sleale. Un velo di debolezza, l’ombra del conflitto che lo rode, si posa sulla figura del rettore. Sembra confuso, poco convinto, ma accusa la ferita. Melantone è in piedi: ha insinuato il dubbio, non resta che dare il colpo di grazia.
In quel momento una voce si alza dalla platea. Una voce ferma, chiara, che non può appartenere a uno studente.
- «Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe e sarete condotti davanti ai loro governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani...» Forse che il nostro Maestro Lutero ha timore di presentarsi al cospetto dell’autorità per essere giudicato dai tribunali? Non vi basta la sua testimonianza per capire? Quello di Lutero è il grido che si alza dai campi e dalle miniere, contro chi ha fatto scempio della vera fede: «Colui che viene dall’alto è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra». Lutero ci ha indicato la via: quando l’autorità degli uomini si oppone alla testimonianza il vero cristiano ha il dovere di affrontarla.
Guardiamo il volto di chi ha appena parlato. Lo sguardo è ancor più duro e deciso delle parole. Non si distoglie mai da Melantone.
Melantone. Strizza gli occhi deglutendo la rabbia, stupito. Qualcuno gli ha rubato la parola. Due rintocchi. Chiamano alla lezione di Lutero. Si deve andare.
Silenzio e tensione si sciolgono nel brusio degli studenti, impressionati dalla disputa, e nelle frasi di circostanza di Amsdorf.
Tutti fluiscono verso il fondo del cortile. Melantone non si muove, gli occhi, piantati su chi gli ha strappato una vittoria certa. Si fronteggiano a distanza, finché qualcuno non prende il professore sotto braccio per accompagnarlo all’aula. Prima di andare, il tono della voce è una promessa: - Avremo occasione di parlare ancora. Sicuramente.
Nel corridoio affollato che precede l’aula dove ci attende il sommo Lutero, affianco il mio amico Martin Borrhaus, che tutti chiamiamo Cellario, anche lui eccitato dall’evento.
A voce bassa: - Hai visto la faccia di Melantone? Messer Linguatagliente lo ha toccato. Sai chi è?
- Si chiama Müntzer. Thomas Müntzer. Viene da Stolberg.

Luther Blisset: «Q», romanzo contemporaleo sulla figura di Pietro Carafa. - Parte Iª cap. 7°: Eltersdorf, 1o giugno 1525.

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Navigazione: PROLOGO. Fuori dall’Europa. – L’«Occhio»: Lettere del 17 maggio 1518, del 10 ottobre 1518. – PRIMA PARTE. Il Coniatore. a) Frankenhausen: Capitoli: 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7. - La dottrina, il pantano: 8. – L’«Occhio»: Lettere del 14 maggio 1521, del 27 ottobre 1521. – Capitoli: 9 - 10 - 11. - La sacca, i ricordi: 12 - 13 - 14 - 15 - 16 - 17 - 18 - 19 - 20 - 21 - 22 - 23 - 24 - 25 - 26 - 27 - 28 - 29. – L’«Occhio»: Lettere del 28 maggio 1525, del 22 giugno 1526, del 10 giugno 1527, del 17 settembre 1527, del 1 ottobre 1529.

A seguire:
– PARTE SECONDA – PARTE TERZA - EPILOGO

PRIMA PARTE
Il Coniatore
Frankenhausen
(1525)
Capitolo 7
Eltersdorf, Franconia 10 giugno 1525


Guadagnarsi il pane è davvero faticoso e triste. L’uomo si inventa pietose bugie a proposito del lavoro. Ecco un’altra e abominevole idolatria, il cane che lecca il bastone: il lavoro.
Ceppo e ascia dal sorgere del sole. Faccio legna nel cortile che separa l’orto e la stalla dalla casa di Vogel.
Wolfgang Vogel: per tutti pastore di Eltersdorf, seguace di Lutero; per Hut un ottimo aiuto nel diffondere libri, opuscoli, manifesti; per i contadini insorti «Leggilabibbia», dal suo ritornello: «Ora che Dio parla nella vostra lingua, dovete imparare a leggere la Bibbia da soli. Non avete più bisogno di dottori». «Allora neanche di te c’è bisogno», era la risposta più frequente, che comunque non lo scoraggiava mai.
E bravo Leggilabibbia: accoglienza calorosa, pacca sulla spalla, informarsi su chi è vivo e chi è morto, e mi ritrovo con una scure in mano davanti a una catasta di legna. Sono qui solo da due giorni e devo guadagnarmi l’ospitalità.
A Bibra Hut non c’era, la stamperia chiusa. Mi hanno detto che era passato di là una settimana prima, ma era subito ripartito per la Franconia settentrionale, a battezzare quanta più gente poteva. Come un viandante che arrivi a un ostello in fiamme e chieda cosa c’è per cena. Quando ho saputo che Vogel era di nuovo a Eltersdorf, il tempo di cambiare cavallo, fare provviste e sono ripartito.
Eltersdorf. Ho una stanza, un piatto di minestra e un nuovo nome: Gustav Metzger. Sono ancora vivo e non so come. Di rimettersi in strada, per ora non se ne parla.

***
Eltersdorf, estate 1525

Giornate lunghe, insopportabili. Pulire la stalla, spaccare legna, riempire la mangiatoia dei porci, in attesa che la scrofa figli. Raccogliere i frutti del piccolo orto, aggiustare gli arnesi sempre in procinto di tirare le cuoia. Mansioni ripetitive, pura coazione degli arti, svolte ogni giorno per avere diritto a una ciotola da cane di cortile.
Intanto le notizie che giungono da fuori parlano di massacri ovunque: la rappresaglia dei principi si è rivelata all’altezza della sfida che avevamo lanciato. Le teste dei contadini restano basse sull’aratro: non sono più quelli che hanno impugnato le falci come spade.
In tutto il paese non c’è quasi nessuno con cui riesca a scambiare due parole. Vado fino al mulino a far macinare il grano di Vogel e incontro qualcuno per strada, poche battute sul pastore Wolfgang, l’unico del villaggio ad avere frumento per il mugnaio.
Una delle poche cose piacevoli della giornata sono le discussioni con Hermann, un contadino rincoglionito che tiene dietro all’orto di Vogel. Per la verità parla quasi solo lui, mentre vibra colpi con l’ascia sui ciocchi di legno, perché ognuno, dice, ha le mani che si merita, e lui è nato che aveva già i calli, e i dottorini come me è meglio che tocchino soltanto libri. Sorride, bocca mezza sdentata, e giura che questa guerra l’hanno vinta i poveracci come lui. Racconta di quando hanno preso il castello del conte e per dieci giorni si sono fatti servire da lui e dai suoi uomini, mentre la notte si scopavano la signora e le figlie. Quella è stata la loro grande vittoria: nessuno può pensare di rovesciare i potenti per molto tempo, anche perché se governassero i contadini e i signori lavorassero la terra si morirebbe presto tutti quanti di fame, ché ognuno ha le mani che si merita... Eppure, per un signore, leccare i piedi di un servo e dover rimettere il coso dove l’ha messo un bifolco, è la più accecante delle sconfitte. Per quelli come Hermann, il più sacro dei godimenti. Ride come uno scemo, sputacchiando tutt’intorno, e per fargli ancor più piacere, gli dico che, forse, il prossimo conte sarà proprio figlio suo e che quello è un bel modo di abbattere i potenti: inquinargli la prole.
Con Vogel invece c’è poco da discutere. È un brav’uomo, ma non mi piace: dice che il fato e la suprema volontà divina hanno voluto che le cose andassero cosí, che l’orribile massacro di inermi avesse luogo, che l’insondabile, suprema potenza ci esorta a comprendere attraverso i suoi segni, anche quelli tragici o funesti, che non è la volontà degli uomini, anche quelli giusti e meritevoli del regno, sufficiente a realizzare la sua promessa in terra. Che si fotta, Vogel e con lui le promesse e tutto il resto.

***

Adesso mi volto quando mi chiamano Gustav, mi sono abituato a un nome che non è ù mio di qualunque altro.

***

La sera, la luce delle candele basta appena per leggere qualche pagina della Bibbia. La mia stanza: pareti di legno, una branda, uno sgabello e un tavolo. Sopra il tavolo, la sacca del Magister, un grumo informe di fango incrostato. Nessuno l’ha più spostata da lí.
Non c’è più niente, niente oltre quella sacca portata fin qui da Frankenhausen, a ricordarmi le promesse mancate e il passato. Niente che valga il rischio di essere conservato. Avrei dovuto bruciarla subito, ma ogni volta, avvicinarsi per afferrarla era come ritrovarsi in cima a quella scala e sentire il peso che tirava giú, mentre abbandonavo il Magister al suo destino.
Per la prima volta la apro. Quasi si sbriciola tra le mani. Le lettere ci sono ancora tutte, ma l’umidità le ha mangiate e imputridite. I fogli si tengono insieme a fatica.

Al magnifico maestro nostro messer Thomas Müntzer de Quedliburck, il saluto dei contadini della Foresta Nera e di Hans Müller von Bulgenbach, ribellatisi all’unisono e con la forza al turpissimo signore Sigmund von Lupfen, colpevole di aver affamato e vessato i suoi servi e le loro famiglie inverno dopo inverno, riducendoli alla disperazione.
Maestro nostro, scrivo per informarVi che una settimana è trascorsa da quando i nostri dodici articoli sono stati presentati al Consiglio della città di Villingen, il quale ha risposto prontamente accogliendo solo alcune delle richieste in essi contenute. Una parte dei contadini ha quindi ritenuto di non poter ottenere di più e ha scelto di ritornare alle proprie case. Ma una parte non esigua di essi ha invece deciso di proseguire la protesta. Io stesso sto cercando di raggiungere i contadini dei territori vicini per trovare rinforzi in questa giusta lotta e Vi scrivo con la fretta di chi ha già un piede nella staffa, certo che non vive altro uomo in tutta la Germania più pronto di Voi a giustificare la mia concisione e sperando di cuore che questa missiva possa raggiungerVi.

Che Dio Vi accompagni sempre,
l’amico dei contadini,
Hans Müller von Bulgenbach
Di Villingen, il giorno 25 di novembre dell’anno 1524

Müller, probabilmente morto. Avrei voluto conoscerlo allora. E non è passato un anno. Un anno che adesso sembra dall’altra parte del mondo, come le sue parole. L’anno in cui tutto è stato possibile, se mai davvero lo è stato.
Pesco ancora nella sacca. Un foglio giallo e sbrindellato.

Al Maestro dei contadini, signor Thomas Müntzer, difensore della fede contro gli empi, presso la chiesa di Nostra Signora in Mühlhausen.
Maestro nostro, il giorno della santa Pasqua, approfittando dell’assenza del conte Ludwig, i contadini hanno dato l’assalto al castello di Helfenstein, e dopo averlo depredato e aver catturato la contessa e i figli si sono diretti verso le mura della città dove il conte e i suoi nobili si erano rifugiati. Grazie all’appoggio dei cittadini hanno fatto irruzione all’interno e li hanno catturati. Quindi, hanno condotto il conte e altri tredici nobili in aperta campagna e li hanno costretti a passare sotto il giogo. Nonostante in cambio della vita il conte avesse offerto molto denaro, lo hanno ucciso insieme ai suoi cavalieri, lo hanno spogliato e lasciato in mezzo al bosco con le spalle allacciate al giogo. Tornati al castello, gli hanno appiccato fuoco.
La notizia di questi avvenimenti non ha tardato a raggiungere le contee vicine, seminando il panico tra i nobili che ora sanno di poter subire la stessa sorte del conte Ludwig. Sono certo che questi accadimenti saranno un viatico di primaria importanza per il riconoscimento dei dodici articoli in tutte le città.
In questo giorno di Pasqua, il Cristo resuscita dai morti per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi (Is 57, 15). Che la grazia di Dio non vi abbandoni,

il capitano delle schiere contadine del Neckar e dell’Odenwald,
Jäklein Rohrbach
Di Weinsberg, il giorno 18 aprile dell’anno 1525

Stringo il foglio ammuffito. Conosco questa lettera, Magister Thomas la lesse ad alta voce per ricordare a tutti che il momento del riscatto era vicino. La sua voce: il fuoco che ha incendiato la Germania.

Luther Blisset: «Q», romanzo contemporaleo sulla figura di Pietro Carafa. - Parte Iª cap. 6°: Frankenhausen 24 maggio 1525.

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A seguire:
– PARTE SECONDA – PARTE TERZA - EPILOGO

PRIMA PARTE
Il Coniatore
Frankenhausen
(1525)
Capitolo 6
24 maggio 1525

Poche ore di viaggio e le colline della Selva Turingia erano già uno sbiadito riflesso nel grigio cupo del cielo alle mie spalle. Avevo da poco superato la fortezza di Coburgo, diretto alla locanda del borgo di Ebern. Ancora due giorni di marcia, tre al massimo, lungo le valli boscose che l’Alta Franconia cominciava a spalancare di fronte a me. Una strada larga, normalmente affollata da carri di mercanti tra l’Itz e il Meno. Quella sera a Ebern, il giorno dopo a Forscheim, per evitare gli sguardi indiscreti di Bamberga, poi Norimberga e Bibra finalmente.
Per la prima volta ho sentito di potercela fare. Questa fatica, che torna ad addentarmi, l’avevo scordata, annullata dalla forza di chi si arrampica oltre l’orlo della disfatta.

***

Mi è venuta incontro da lontano, mentre il cielo si colmava di nubi: dolente, lacera, tragica. Una coltre sottile la precedeva, impasto di luce tenue e grigiastra, con la pioggia leggera che rende incerti vista e respiro, sulla spianata della valle stretta, che contavo di superare entro il tramonto.
Procedeva lenta, forse qualche ora di cammino alle spalle dall’incedere del giorno, dopo una notte accampata chissà come, con davanti il buio insopportabile di un viaggio senza approdo.
Non avevano carri, né buoi né cavalli. Sacchi sulle spalle. Fiumana di scampati, inondazione di miseria per le torri splendide di Coburgo.
La colonna di umanità massacrata strisciava, inerme, schiacciata dall’orma gigantesca del Cielo. Trascinarsi spossato di masserizie, gemito di infermi sotto bende sudicie, anziani adagiati su lettighe di fortuna. Litanie incessanti e pianto di bambini a intonare lo strazio.

Solo alcune donne provavano a dare una direzione ai corpi: risalivano più volte quelle fila scomposte, dando conforto ai feriti o incoraggiando ad avanzare chi cedeva al peso della sciagura; sempre con piccoli avvinghiati alle spalle, alle braccia o in grembo, volti tragici e alteri. Quella forza impensabile, solenne, infondeva un alito di vita nella carne sventurata di chissà quale villaggio, lo stesso incontrato giorni fa, o un altro, o ancora. Esisterà un brandello di mondo sfuggito al cataclisma?
Ne ho seguito la fatica dei passi, bordeggiando qualche decina di metri alla destra, per un tempo immobile, eterno. Ogni tanto uno sguardo, un lamento implorante mi attraversava da parte a parte. Centinaia di uomini sottomessi a un solo soldato: non un gesto di disprezzo, non un accenno di reazione. Sfiniti, tutti, attoniti davanti alla rovina. A me, fuggiasco sotto le spoglie dell’assassino, si rivolgeva la preghiera dei Senzaniente.
Poi, un volto di donna, rompendo l’inerzia, mi è venuto incontro. Vivo, nell’immane stanchezza, staccandosi dalla colonna piangente, dopo aver affidato ad altre braccia i due cuccioli affamati che portava con sé.
- Non abbiamo più nulla, soldato. Solo le ferite degli storpi e le lacrime dei nostri bambini. Cos’altro ancora?
Non ho trovato parole, a lenire il rimorso per l’impotenza e la colpa di essere vivo, di fronte a quegli occhi fieri, chiodi conficcati nella carne. Dovevo scendere da cavallo, raccogliere i suoi figli, darle denaro e aiuto. Soccorrere la mia gente, la schiera degli eletti rovinata nel fango da cui voleva affrancarsi. Scendere e rimanere.
Ho colpito con forza i fianchi del cavallo. Quasi alla cieca.

(a seguire)

domenica 24 maggio 2009

I caracciolo in oltre 1000 anni di storia: m) Vescovi e Arcivescovi.

Versione 1.0 / 25.5.09.
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Sezione: a - b - c - d - e - f - g - h - i - j - k - l - m - n -

Se fra i Caracciolo possono dirsi numerosi i Cardinali sono invece innumerevoli i Vescovi e gli Arcivescovi. Nei secoli passati la figura del Vescovo aveva una grande importanza non solo sotto il profilo religioso, ma soprattutto per la sua rilevanza sociale, economica, politica. Ci sembra di notevole aiuto per un censimento dei Caracciolo o Carafa che furono vescovi nelle diverse epoche e in diversi luoghi un sito che abbiamo da poco scoperto e che ci induce alla redazione di questo nuovo Repertorio. Si tratta della “Gerarchia Cattolica”, dove sono elencati tutti i Vescovi, i Cardinali, le Diocesi, di oggi e del passato, dalla loro istituzione alla loro abolizione. I dati sono scarni, ma essenziali nei riferimenti cronologici e geografici. Saranno da noi assunti come base per ulteriori ricerche e approfondimenti. La figura del “vescovo” è centrale in tutto il sistema organizzativo della religione cattolica. La qualifica di “vescovo” precede in genere nella “carriera” quella di Cardinale: si può essere vescovi senza diventare cardinali, ma in genere un cardinale è tratto dal rango dei vescovi.

A

a - g - i - n -
cardinali - biografico - cronologico - toponomatico - glossario

Annibale Vescovo Caracciolo. – Morì nel 1605, fu “appointed” vescovo di Isola nel 1562. - Fonte. ||
Giovanbattista Vescovo Caracciolo. – Nacque il 29 dicembre 1695 a Napoli. Fu nominato vescovo di Aversa il 16 febbraio 1761 all’età di 65,1 annii. Si dimise nel 1765 all’eta di 69 anni. - Fonte. ||
Innico Arcivescovo e Cardinale Caracciolo (Sr). – Nacque a Napoli il 7 marzo 1607. Fu elevato Cardinale in Pectore il 15 febbraio 1666 all’età di anni 58,9. Fu nominato Arcivescovo di napoli il 7 marzo 1666 all’età di anni 60. Lo stesso giorno del 7 marzo 1667 fu pure elevato a Cardinale. Fu insediato come Cardinale prete di S. Clemente il 18 luglio 1667 all’età di anni 60,4. Morì il 30 gennaio 1685 all’etò di 77,9 anni come Arcivescovo di napoli. Fu cardinale per 19 anni. - Fonte. ||
Innico Cardinal Caracciolo (Jr.). – Nacque l’8 luglio 1642 a Castel Martino. Fu nominato vescovo di Aversa il 25 febbraio 1697 all’età di 54,7 anni. Fu ordinato vescovo di Aversa il 24 marzo 1697 all’età di 54,7 anni. Fu elevato Cardinale “in pectore” il 29 maggio 1715 all’età di 72,9 anni e di nuovo in pectore il 16 dicembre 1715 all’etò di 73,4 anni. Fu insediato come cardinale-prete di S. Toomaso in Parione il 30 marzo 1716 all’età di 73,7 anni. Morì il 6 settembre 1730 all’età di 88,2 anni come vescovo di Aversa. Nel Concistoro del 29 maggio 1715 fu creato cardinale in Pectore e reso pubblico nel Concistoro dicembre 1715. Partecipò ai conclavi del 1721, 1724 e 1730. Fu vescovo per 33,5 anni e cardinale per 15,3 anni. - Fonte. ||
Niccolò Vescovo e poi anche Cardinale Caracciolo. – Nacque l’8 novembre 1658 a Villa Santa Maria. Il 10 maggio del 1700, all’età di anni 41 e mesi 5 fu nominato (appointed) arcivescovo titolare di Tessalonica, un mese dopo fu “ordinato” (ordained) vescovo sempre di Tessalonica. Il 23 aprile 1703, all’età di 44,5 anni, fu nominato arcivescovo di Capua. Fu elevato a Cardinale il 16 dicembre 1715 all’età di anni 57,2 e si insediò il febbario 1716 come Cardinal-Priest dei Ss. Silvestro e Martino ai Monti. Morì il 7 febbraio 1728, all’età di 69,2 anni come arcivescovo di Capua. Nel concistoro del dicembre 1715 fu creato Cardinale. Partecipò al concalve del 1721. Fu inabile a poter partecipare al conclave del 1724. Fonte. ||
Settimio Vescovo Caracciolo di Torchiarolo. – Nacque il 7 settembre 1862 a Napoli. Fu ordinato sacerdote il 31 maggio 1885 all’età di 22,7 anni. Fu nominato vescovo di Alife, in Italia, il 24 marzo 1898 all’età d 35,5 anni. Fu nominato vescovo di Aversa il 10 aprile 1911 all’età di 48,6 anni. Morì il 23 novembre 1930 come Vescovo di Aversa. -Fonte. ||

Luther Blisset: «Q», romanzo contemporaleo sulla figura di Pietro Carafa. - Parte Iª cap. 5°: Frankenhausen, 21 maggio 1525.

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A seguire:
– PARTE SECONDA – PARTE TERZA - EPILOGO

PRIMA PARTE
Il Coniatore
Frankenhausen
(1525)
Capitolo 5
21 maggio 1525

Tutt’intorno alla stazione di cambio, un gran via vai di carri, carichi della razzia dei villaggi; capitani strillano ordini in dialetti diversi; drappelli di soldati partono in ogni direzione; baratti e compravendite di bottino in mezzo alla strada, tra mercenari più sporchi di me, e vagabondi ad aspettare gli avanzi. L’altra faccia della devastazione incontrata lungo la strada: retrovie di una guerra senza fronti, la fossa di scolo per il grasso del massacro.
Il cavallo ha bisogno di riposo, io di un pasto decente. Ma soprattutto devo orientarmi, trovare la strada più breve per Norimberga e poi Bibra.
- Non è conveniente lasciare incustodito un cavallo di questi tempi, soldato. Una voce sulla destra, oltre una colonna di fanti che riprende la marcia. Robusto, grembiule di cuoio e alti stivali coperti di merda.
- Il tempo che entri nella locanda e te lo servono per cena... Nella stalla sarà più sicuro.
- Quanto?
- Due scudi.
- Troppo caro.
- La carcassa del tuo cavallo varrà di meno...

Il mercenario pagato e congedato che torna a casa: - D’accordo, ma devi dargli fieno e acqua.
Fallo entrare qui. Sorride: strade piene, affari d’oro.
Vieni da Fulda? Il soldato che torna dalla guerra: - No. Frankenhausen.
Sei il primo che passa... Di’ un po’, come è stata? Una gran battaglia...
La paga più facile della mia carriera. Lo stalliere si gira e urla: - Ehi, Grosz, c’è uno che viene da Frankenhausen!
In quattro escono dall’ombra, facce ruvide di mercenari. Grosz ha una cicatrice che solca la guancia sinistra e scende sul collo, la mascella incrinata dove la lama ha inciso l’osso. Occhi grigi inespressivi di chi ha visto molte battaglie, abituati al tanfo dei cadaveri.
La voce esce da una caverna: - Li avete ammazzati tutti gli zappaterra?
Un respiro profondo per deglutire il panico. Volti che scrutano.
Il soldato che torna dalla guerra borbotta: - Tutti quanti.
Lo sguardo di Grosz cade sulla borsa dei soldi appesa alla cintura: - Stavi col principe Filippo?
Altro respiro. Non darsi mai il tempo di esitare.
- No, col capitano Bamberg, nelle truppe del duca Giorgio. Gli occhi restano immobili, forse dubbiosi. La borsa.
- Abbiamo provato a raggiungere Filippo per unirci ai suoi, ma siamo arrivati a Fulda troppo tardi. Erano già ripartiti: correva come un pazzo, quel rotto in culo! Si è fatto Smalcalda, Eisenach e Salza a marce forzate, neanche il tempo di fermarsi a pisciare...
Un altro: - Ci sono toccate le briciole, qualche saccheggio in giro. Sicuro che non c’è più nessun contadino da ammazzare? Gli occhi del soldato che ha sterminato i contadini nella piana: vetro, come quelli di Grosz.
- No. Tutti morti.
Facciastorta continua a fissare, riflette sull’affare del momento: quanto è rischioso prendersi la borsa. Sono quattro contro uno. Gli altri tre senza un suo gesto non si muovono.
Parla lento: -Mühlhausen. I principi vanno ad assediarla. Lí sí che c’è da fare un gran bottino. Case di mercanti, non di zappaterra pezzenti... Banche, botteghe...
- Femmine, - aggiunge ghignando quello più basso alle sue spalle.
Ma Grosz, l’orco, non ride. Nemmeno io, gola secca e fiato che non esce. Vàluta. La mia mano sull’impugnatura della spada, appesa alla cintura insieme alla borsa dei soldi. Ha capito: l’unico colpo sarebbe per lui. Gli squarcerei la gola: posso farlo. Sta scritto nello sguardo piantato sulla sua faccia.
Un fremito appena, come verdetto un battito di ciglia. Non vale la pena rischiare.
- Buona fortuna. Passano oltre, muti, il rumore degli stivali che affondano nel fango.

***

Il grassone mi siede di fronte, stacca grossi bocconi da una coscia di capretto, lunghe sorsate da un gigantesco boccale di birra colano sulla barba unta che, con la benda sull’occhio sinistro, quasi nasconde la faccia. La giubba, consunta e lercia, copre a stento i troppi barili di decenni al soldo di tutti i signori.
Durante una pausa il maiale mi interroga: - Cosa ci fa un signorino come te in questo letamaio?
Bocca piena che cola, ci passa sopra la mano e poi rutta.
Senza guardarlo: - Il cavallo deve riposare, io mangiare.
No, signorino. Cosa ci fai in questo buco di culo di guerra bastarda.
Difendo i principi dai rivoltosi... - non mi dà il tempo di continuare.
-Ah... Ah, buona, buona... da quattro pidocchiosi, - mastica, - da una marmaglia di cenciosi, - deglutisce, - che tempi, ragazzini che difendono i signori dalla plebaglia contadina, - rutta di nuovo. - Te lo dico io, signorino, questa è stata la più merdosa di tutte le guerre merdose che ’sto unico occhio buono ha visto. Soldi, compare, solo soldi e gli affari con quei porci di Roma. I vescovi con tutte quelle baldracche e figli da mantenere! Grana, te lo dico io, che i principi, i duchi, quei fottuti, non pensano ad altro. Prima gli tolgono tutto, ai bifolchi, e poi ci mandano noi, a bastonare quelli che si incazzano. Forse sono troppo vecchio per queste stronzate. Rotti in culo! Ma a ’sto giro c’erano da voltare i cannoni contro i principi e i leccamerda del Papa, avevano tirato fuori i coglioni, gli zappaterra: bruciavano i castelli con tutto quel ben di Dio, inculavano le contesse, sbudellavano i preti vaffanculo! Oh, parlavano sempre di Dio ma spaccavano tutto, quasi quasi ci stavo anch’io, ma poi lo sapevo come andava a finire, non c’è fortuna per i pezzenti. E a noi sempre i soliti quattro soldi di merda. Questa è tutta per loro, - scoreggia, sghignazza, tracanna. - Vaffanculo!
Smetto di mangiare, tra sorpresa e disgusto. Il maiale è simpatico, parla come una fogna ma odia i signori. Mi dà coraggio: sono fatti di carne e sangue, non solo ferro affilato.
-Te dov’è che stavi? - gli chiedo.
- A Eisenach, poi a Salza, poi ero stufo di spaccarmi le braccia sulle schiene dei poveracci. Un vero schifo. Sono troppo vecchio per queste stronzate, ho quarant’anni, cazzo, e vent’anni di questa merda. E te, signorino?
- Venticinque.
- No, no: dov’eri?
- Frankenhausen.
- Puttana!!! In mezzo al Giudizio Universale?! Le voci corrono, non avevo mai sentito una roba cosí.
- Proprio cosí, compare.
- E dimmi un po’... Quel predicatore, quel profeta, uh, quello tosto, come si chiama...? Ah, sí: der Müntzer. Il Coniatore. Che fine ha fatto?
Attento.
- L’hanno preso.
- Non è morto?
- No. Ho visto che lo portavano via. Uno del drappello che lo ha catturato mi ha detto che ha lottato come un leone, che è stato difficile, i soldati erano intimoriti dal suo sguardo e dalle sue parole. Mentre lo portavano via sul carro ancora lo sentivo urlare «Omnia sunt communia!»
E che cazzo vuol dire?
«Tutto è di tutti».
Merda, un bel tipo. E te sai il latino?
Sogghigna. Abbasso lo sguardo.

Luther Blisset: «Q», romanzo contemporaleo sulla figura di Pietro Carafa. - Parte Iª cap. 4°: Frankenhausen, 19 maggio 1525.

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Navigazione: PROLOGO. Fuori dall’Europa. – L’«Occhio»: Lettere del 17 maggio 1518, del 10 ottobre 1518. – PRIMA PARTE. Il Coniatore. a) Frankenhausen: Capitoli: 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7. - La dottrina, il pantano: 8. – L’«Occhio»: Lettere del 14 maggio 1521, del 27 ottobre 1521. – Capitoli: 9 - 10 - 11. - La sacca, i ricordi: 12 - 13 - 14 - 15 - 16 - 17 - 18 - 19 - 20 - 21 - 22 - 23 - 24 - 25 - 26 - 27 - 28 - 29. – L’«Occhio»: Lettere del 28 maggio 1525, del 22 giugno 1526, del 10 giugno 1527, del 17 settembre 1527, del 1 ottobre 1529.

A seguire:
– PARTE SECONDA – PARTE TERZA - EPILOGO

PRIMA PARTE
Il Coniatore
Frankenhausen
(1525)

Capitolo 4
19 maggio 1525

Cavalco, con addosso la divisa dell’infamia.
È la divisa a proteggermi, ora. Forse è astuzia, devo abituarmi, forse. Maschera di mercenario dell’infamia, quando l’infamia trionfa, nient’altro.
Devo abituarmi. Non avevo mai ucciso prima.
Ancora un tramonto a screziare campi e colline di riflessi purpurei, rendere più vaghi i contorni, dissolvere le certezze se mai ne erano rimaste.
Molte miglia percorse, sempre a sud, verso Bibra, in sella a una tenue speranza. Le campagne attraversate portavano i segni del transito dell’orda assassina. Come i resti di una sciagura degli elementi: terreni mai più fertili; ferraglie e ogni sorta di residui della truppa immonda; qualche cadavere a marcire, carcasse di disgraziati capitati sul cammino; manipoli di mercenari sguinzagliati da chissà quale massacro verso una nuova razzia.
Da quando il buio ha inghiottito l’orizzonte e le ultime ombre proseguo a piedi nella boscaglia. Scorgo tra gli alberi bagliori in lontananza: forse altri bivacchi. Pochi passi ancora e un rumore sordo mi viene incontro. Cavalli, clangore di corazze, riflessi di torce sul metallo. L’animale scalpita, devo tenerlo a freno mentre cerco riparo dietro a un tronco. Resto in attesa, accarezzando il collo del cavallo per alleviargli la paura.
Il rumore è un fiume in piena. Avanza. Zoccoli e armi scintillanti. Un’orda di fantasmi scorre a pochi metri da me.
Finalmente il fragore si fa più debole, ma la notte non torna a tacere.
La luce oltre il bosco si è fatta più intensa. L’aria è ferma, ma le cime degli alberi ondeggiano: è il fumo. Mi avvicino fino a sentire crepitio di legna bruciata. Gli alberi si aprono a un tratto sulla distruzione assoluta.
Il villaggio è avvolto dalle fiamme. Il calore mi investe la faccia, piovono piccole braci e fuliggine. Una zaffata dolciastra, odore di carne bruciata, mi rovescia lo stomaco. Allora li vedo: corpi carbonizzati, sagome indistinte abbandonate al rogo, mentre il vomito sale in gola, taglia il respiro.
Le mani avvinghiate alla sella, portami via, a capofitto nella notte, fuggi dall’orrore e dalla presa immonda dell’inferno.

«Cronaca del convento di Sant’Arcangelo a Baiano». P. L. Jacob: Recherches sur les couvens au seizième siècle. Parte 2ª.

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Avant-proposRecherches sur les couvens au seizième siecle: Pars - - 3ª - 4ª - 5ª - 6ª - 7ª - 8ª - 9ª - 10ª. - LE COUVENT DE BAÏANO: Recit: Pars 1ª - 2ª - 3ª - 4ª - 5ª. Cronique: Pars 1ª - 2ª - 3ª - 4ª - 5ª - 6ª - 7ª - 8ª - 9ª - 10ª. CRONACA del Convento di Sant’Angelo a Bajano estratta dagli Archivi di Napoli: Prefazione - Introduzione: Parte 1ª - 2ª - 3ª - 4ª - 5ª. Cronaca: Parte 1ª - 2ª - 3ª - 4ª - 5ª - 6ª - 7ª - 8ª - 9ª - 10ª.

P. L. JACOB

RECHERCHES
SUR LES COUVENS
au seizième siècle

Pars 2ª

Les Augustins, qui prirent naissance, avec le saint, leur patron, vers la fin du quatrième siècle, arrivèrent jusqu’au seizième, à travers de nombreuses réformes, dont la moins importante ne fut pas celle de la chaussure. De là scission dans l’ordre: grands-augustins portant bas et souliers; augustins-dé-chaussés avec sandales; car on n’a pas encore découvert de quelle manière était chaussé le grand saint Augustin.

Ces religieux, d’une humeur turbulente et belliqueuse, étaient vêtus d’une robe noire avec un large capuce, et quelquefois un scapulaire blanc sur la poitrine. Le fougueux Luther fit ses premières armes chez les augustins.

Les Carmes, qui se vantatient de descendre du prophète Élie, non pas salis doute en ligne directe, inventeurs du scapulaire, et propriétaires de la maison de la Vierge à Lorrette, après plusieurs réformes inutiles, se partagèrent, comme les augustins, en grands-carmes et en cannes-déchaussés. Sainte Thérèse, réformatrice des carmélites, eut l’honneur de cette division. Le grand-carme, dont la besace, suivant le dicton populaire, valait mieux que la crosse du Saint-Père, buvant et mangeant bien, avait une de ces faces cardinalisées qui ne se sentent pas du carême. Il était vêtu bien chaudement pour l’été; sa robe de drap brun traînante avec un froc plus ample derrière que devant et à grandes manches, ressortait de dessous un manteau de laine blanc à froc et à capuchon. Une espèce de braie en drap, une chemise de toile et une veste de laine devaient rendre ce costume aussi incommode que celui d’un soudard qui portait sur lui plus de cent livres de fer. Les grands-carmes ne différaient presque des carmes-déchaussés que par la chaussure grossière dite hobelins. La différence était plus importante au moral; car les disciples de sainte Thérèse se nourrissaient un peu moins bien que des ânes ou des mulets, et s’appliquaient à une recherche excessive d’austérités.

Les Capucins seraient encore à naître, sans la miraculeuse découverte du véritable habit de saint François, que les cordeliers avaient si impudemment défiguré. Le nom de capucin leur fut imposé par les railleurs, à cause de leur capuçon , dont nous avons fait capuchon. Ils parurent en France pour la première fois sous les auspices de Charles IX et de Catherine de Médicis. Ces religieux, pour qui, selon une vieille locution, rien n’était ni trop chaud, ni trop froid, ni trop pesant, se relâchèrent bientôt de la sévérité de leur institution. Ils avaient la tête rasée en corolle, et la barbe si prodigieusement épaisse qu’on en faisait peur aux petits enfans; ils étaient d’une horrible saleté sous leur robe brune composée de haillons de plusieurs teintes, bigarrée de taches et dévorée de vermine, le tout mal déguisé par un sale manteau. Une ceinture de corde à trois noeuds, un capuchon menaçant le ciel, et des sandales de bois, achevaient la toilette d’un franc capucin.

Toute la règle des Franciscains, ou Cordeliers, ou Frères-Mineurs, fondés par saint François, au treizième siècle, est renfermée dans ces paroles de l’Évangile: «Ne possède ni or, ni argent, ni sacs, ni chaussures». Il y avait, du temps de saint Louis, d’autres cordeliers, gens de cordes liés, dit Joinville.

Ceux de saint François, fort zélés pour le salut des ames, vendant des images et des prières, prêchant, confessant, étaient en bonne odeur auprès des femmes, malgré leur malpropreté coutumière. Ils s’habillaient tout en drap brun, robe, froc, capuchon et manteau, doublés pareillement en drap; un tablier leur tenait lieu de grègues; leur ceinture de cordes revenait deux ou trois fois autour du corps.

Nul n’était reçu cordelier, s’il n’était pas jugé en état de supporter les rudes travaux de l’ordre. Cette épitaphe de Clément Marot fait foi du genre de mérite de ces moines, velus comme des ours, dit un auteur du temps:
Cy gisl Cordelier Semydieux,
Dont nos dames fondent en larmea,
Parcequ’il les confessoit mieux
Qu’Augustins, Jacopins ou Carmes.

Ils ne gardaient pas toujours le voeu de pauvreté, ou bien le pratiquaient d’une façon fort étrange, témoin cette épigramme de Victor Brodeau:

Mes beaulx peres religieux,
Vous disnez pour un grand mercy:
O gens heureux! O demy dieux!
Pleust à Dieu que je feusse ainsy:
Comme vous vivrais sans soucy:
Car le voeu qui l’argent vous oste,
Il est clair qu’il deffend aussy
Que ne payez jamais vostre hoste.

Les Cordeliers étaient les princes des Mendians. Les Dominicains, qu’établit au treizième siècle saint Dominique, le bourreau des Albigeois, conservèrent les prérogatives d’inquisiteurs. Ce n’est pas en France qu’ils furent les instrumens de la vengeance divine. Ils se nominaient encore Jacobins, ou Frères-Prêcheurs, et se répandirent jusqu’en Chine. Mais l’Espagne et l’Italie furent le théâtre de leurs faits et gestes. Le dominican, comme le dit Marot, ne ressemblait pas mal à une pie, avec sa robe de laine blanche, retenue par une ceinture de cuit et demi-cachée par un long manteau de laine noire. Du reste, la tête et le menton rasés, les pieds chaussés, et pas de chemise, selon une bulle du pape Innocent III.

Je n’ai parlé que des ordres mendians, qui appartenaient à tous les pays où ils étaient reçus; le métier devait rapporter beaucoup, puisqu’ils se multiplièrent si catholiquement. Je ne dirai rien des autres ordres, tels que les Minimes, les Jambonistes ou Antoniens, les Chartreux, etc.; outre qu’ils ne faisaient que des progrès lents et restreints, ils ne participaient point à la licence effrénée des moines, dits de la besace; et même les bénédictins qui formaient l’aristocratie monacale, et s’ennoblissaient par le titre de dom, avaient fait de leurs couvens le refuge des sciences et des lumières, tandis que le menu bétail des moines croupissait dans une ignorance proverbiale.

Je ne veux pas non plus énumérer et décrire processionnellement tous les ordres religieux de femmes, depuis les moinesses de Saint-Basile jusqu’aux Filles-Repenties. Ces religions, comme on nommait les ordres, étaient semblables chez les deux sexes, et seulement variaient chez les femmes par la forme d’une guimpe ou d’un béguin. Il y avait des Augustines, des Claristes ou des Cordelières, des Chartreuses, des Bénédictines, et des Carmélites. Ces dernières, surtout au seizième siècle, se propagèrent en Espagne et en Italie, avec la réforme de sainte Therèse, qui, à sa mort, n’avait pas moins de quatorze couvens d’hommes, et seize de filles sous sa juridiction. Les carmélites de ce temps-là ne différaient guère de celles de la rue du Bouloy, qui s’emparèrent de madame de La Vallière, et que Louis XIV désignait par les noms de brodeuses, bouquetières, pestes et intrigantes.

Le costume des religieuses variait autant que le caprice des saintes filles qui le portaient; c’étaient d’ordinaire des étoffes de laine noire, blanche ou brune, des robes amples avec des manches tombant jusqu’au bout des doigts, des manteaux courts ou longs, des scapulaires et des voiles autour de la tête entièrement rasée.

Il y a un livre tout entier à faire sur les convens du seizième siècle; ma tâche à moi ne consiste qu’à ramasser des faits qui instruisent mieux que des jugemens d’à présent. Je trouve dans un vieux livre fort rare le recensement des moines; en 1581. Pour faire leur portrait caractéristique et impartial, je rassemblerai différens traits recueillis dans les auteurs contemporains. Quant aux anecdotes, je n’aurai que l’embarras du choix. Il faudrait citer tout Boccace, qui, de même que la reine de Navarre ne fait que raconter des nouvelles vraies arrivées de son temps. Le Décameron n’est, pour ainsi dire, qu’une histoire galante des couvens, un répertoire des faits et gestes d’un personnage collectif: la Moinerie.

Un prodigieux calculateur, nommé Froumenteau, a composé un singulier état de la Polygamie sacrée; c’est ainsi qu’il nomme le célibat des ecclésiastiques. Froumenteau, chaud partisan de la religion réformée, a bien pu abuser de la bonne foi des chiffres; cependant on ne risque rien à croire au moins la moitié de ce qu’il avance. Il commence par apprécier fort ingénieusement la quantité de prêtres, de moines, de religieuses, que nourrit la primauté de Lyon, avec le nombre des complices de leurs débauches, et sans oublier leurs bâtards, ni leurs chiens, ni leurs chevaux. Ce recensement considérable, avec toutes les preuves, dans une seule primauté, permet d’étendre ce calcul à toutes les primautés de Frànce. Ainsi, de ce travail fastidieux à faire, autant qu’à lire, il résulte les faits suivans:

En 1581, le revenu de l’église gallicane était de plus de cent millions d’écus; elle possédait en France, à cette époque, quatorze cent cinquante-six abbayes, douze mille trois cent vingt-deux prieurés, deux cent cinquante-neuf commanderies de Malte, cent-cinquante-deux mille chapelles, cinq cent soixante-sept couvens de femmes, sept cents couvens d’hommes; enfin cent quatre-vingt mille châteaux, fiefs et seigneuries.

L’auteur de ces recherches détaille scrupuleusement combien d’arpens d’eau, de bois, de champs ou de vignes appartenaient à ces apôtres si détachés des biens de la terre. Il nous donne le prix de toutes les sacrées contributions, depuis l’exorcisme jusqu’à la confession des femmes enceintes; il passe ensuite à l’énumération des personnes mâles et fèmelles qui vivent aux dépens du crucifix en l’église gallicane, y compris les chevaux, les chiens et les oiseaux de vénerie. C’est là qu’il faudrait toute la foi catholique pour croire.

La primauté de Lyon présente une si énorme masse de libertinage monacal, que l’on est forcé de dire à l’auteur: Vous êtes bon réformé, M. Froumenteau. Il y avait, selon lui, dans l’archevêché de Lyon, tant archevêque, évêque, prélats, abbés, prieurs, chapelains et prêtres, que moines des deux sexes, avec tous leurs officiers et serviteurs, cinquante-cinq mille deux cent trente personnes. Ce nombre n’est pas exagéré; mais il fait monter il cent cinquante-cinq mille les femmes et filles, dévotes ou non, se consacrant corps et ame au service de la concupiscence ecclésiastique, par métier ou autrement! Voilà certes une calomnie sentant l’hérésie: deux femmes au moins pour chaque moine! Ce serait tout profit à garder le célibat.

Froumenteau entre alors dans des particularités de moeurs assez peu orthodoxes, même dans les couvens. Je m’abstiens volontiers de le suivre au milieu de cette licence infecte. Les bâtards de tout ce monde ne pouvaient manquer d’être fort nombreux; je n’en trouve que soixante-neuf mille cent trente-huit, sauf les omissions. On peut ajouter à ce dénombrement dix-neuf mille chevaux, deux mille chiens, cinq mille oiseaux de proie. Ce dernier calcul ressemble à un trait de satire dirigé contre les moines, qui dévoraient le peuple et s’engraissaient de rapines.

(a seguire)